LA MISSIONE ITALIANA

SETTIMO ALPINI IN AFGHANISTAN

IL COLONNELLO SFARRA: «ORGOGLIOSO DI LORO»

 

Da circa tre mesi i militari del 7° Alpini, base a Belluno, si trovano in Afghanistan. Abbiamo chiesto al colonnello Paolo Sfarra, che comanda l'intero Reggimento, com'è la situazione e quali sono i punti critici della missione Isaf, le cui attività sono svolte in collaborazione con forze armate e polizia afghana. Sfarra, partito da Belluno il 27 luglio scorso con la Bandiera di guerra, ha risposto alle nostre domande da Camp Lavaredo, sede del 7° in Afghanistan. E' la terza missione del Settimo in quattro anni. La base si trova a Bakwa, nella provincia di Farah, nella zona occidentale dell’Afghanistan. Nell’area del Regional Command West, gli alpini saranno impegnati fino a febbraio 2011 «in attività di supporto alle autorità afghane per l’incremento delle condizioni di sicurezza» - aveva spiegato Sfarra prima di partire. Oltre a uomini e donne del Settimo, circa la metà del reggimento, ci saranno una compagnia del 2º Reggimento genio di Trento e un'altra del 7º Reggimento trasmissioni di Sacile. I primi tempi della missione sono stati segnati dall'incertezza: come sarebbe stato accolto il contingente dalla popolazione? Prima di loro, infatti, c'erano gli Americani: questo poteva destare attriti già in partenza. Commovente il racconto del salvataggio di un bambino di appena 25 giorni, arrivato alla base intossicato da una dose troppo forte di medicinale la settimana scorsa. Il 7° Alpini è riuscito ad organizzare una missione di soccorso, finita bene.


Come è stato l'arrivo al Regional Command West?

«Direi normale: la maggior parte del personale del reggimento ha già svolto operazioni fuori area ed in particolare in Afghanistan e quindi sapeva già cosa lo attendeva; inoltre il fatto di trovare in teatro la brigata Taurinense, e quindi un ambiente ‘alpino’, ci ha sicuramente agevolato nelle operazioni di schieramento».


Quale è la percezione della gente di Bakwa e del Gulistan nei confronti del contingente italiano? Intendendo soprattutto la differenza tra gli Italiani e gli Americani.

«Al momento è di attesa, ci studiano e cercano di capire chi hanno di fronte. La maggior parte di loro non è scolarizzata, qui non ci sono radio o televisione; e pertanto non sanno nulla dell’Italia, non la sanno nemmeno posizionare sulla carta geografica. La popolazione ha grandi aspettative verso le forze Isaf, attese che non è facile soddisfare a causa del divario tra Afghanistan e mondo occidentale. Nella nostra area tutti i villaggi sono privi di servizi essenziali; non c’è né luce elettrica né acqua corrente, non esistono strutture (scontate per noi) quali scuola e ospedali. Questo il motivo per cui cerchiamo di muoverci con cautela ed attenzione, promettendo solamente cose che siamo in grado di mantenere nel breve periodo. Comunque, alcuni piccoli progetti li abbiamo già iniziati e stiamo cominciando a raccogliere qualche successo».


Quali le maggiori difficoltà riscontrate finora?

«Indubbiamente i maggiori problemi sono sul lato della logistica, con distanze notevoli: circa 350 km da Herat, sede del Comando RCW (Regional Command West) e nostra principale base di alimentazione. Un convoglio sino in Gulistan può impiegare anche cinque giorni. Gli assetti aerei ci danno una grossa mano e la situazione sta migliorando, ma questa resta la nostra problematica maggiore».


Quanto è sentito il "sentimento del pericolo" dal 7° Alpini?

«I rischi ci sono, inutile negarlo; l’area assegnata è ancora lungi dall’essere stabilizzata: anche gli Alpini della Task Force sono stati coinvolti in scontri a fuoco, fortunatamente senza conseguenze. Malgrado ciò posso dire che il personale è sereno perché conscio che tutte le attività vengono pianificate ed organizzate con cura, allo scopo di ridurre i rischi al minimo e di salvaguardare l’incolumità del personale. Dopo averli visti in azione sono orgoglioso dei miei Alpini, professionisti seri e preparati».


Momenti critici? Può raccontare aneddoti relativi a rapporti con la popolazione o all'attività Cimic?

«Diversi momenti delicati, tutti gestiti con serenità e professionalità. Ma quel 17 settembre resterà impresso nella memoria di chi opera a Bakwa. Lo scontro a fuoco, quello che ha visto coinvolto il capitano Romani – a cui va il nostro ricordo - è avvenuto a pochi chilometri da noi: abbiamo osservato l’azione degli elicotteri dalle postazioni di guardia. Poche ore dopo, inoltre, una nostra pattuglia è stata attaccata vicino alla base. Vorrei invece ricordare un episodio che ha commosso tutti: alcuni giorni fa, presso la base del Gulistan, è stato portato un neonato di soli 25 giorni, intossicato da un medicinale per adulti. Le sue condizioni erano gravissime: il nostro ufficiale medico lo ha rianimato dopo un arresto cardiaco e lo ha ventilato per almeno tre ore. Siamo riusciti a organizzare una missione di soccorso ed un elicottero ha prelevato lui e la mamma per trasportarli, di notte, all’ospedale militare americano di Delaram. Ora sta bene, tra pochi giorni verrà dimesso. Tutto il personale della Fob Ice (il nome della base in Gulistan), non vede l’ora di fargli festa».


A che livello è la nostalgia di casa da parte dei militari?

«Io sono in teatro da più di due mesi; parte dei miei soldati è qui da tre e la nostalgia comincia a farsi sentire. Ci sono sere che chiamare a casa e parlare con i bambini è davvero difficile. Comunque il tempo passa in fretta e anche questa missione passerà».

 

Federica Fant