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Ancora molta diffidenza per assumere una donna "a rischio maternità"

 

0,016% del fatturato:

il costo della maternità per le aziende

 


Tra i luoghi comuni più diffusi che rendono ancora più difficile l'occupazione femminile nel nostro paese, ci sono quelli legati ai costi economici che graverebbero sui datori di lavoro, quando una dipendente va in maternità. La gravidanza e il periodo immediatamente successivo sono considerati generalmente periodi difficili per l'azienda in cui la neomamma lavora, onerosi dal punto di vista economico e organizzativo.

A sorpresa, invece, «se tutte le aziende italiane integrassero al 100% la retribuzione delle donne in congedo di maternità (quello conosciuto come "obbligatoria", per cui l’Inps copre l’80% dello stipendio e le imprese possono, ma non devono, coprire il restante 20%), queste spenderebbero soltanto 443,4 milioni di euro, ovvero lo 0,016% del loro fatturato». E’ questa la tesi sostenuta da Alessandra Casarico e Paola Profeta nel corso della presentazione dei risultati preliminari di una ricerca del Laboratorio Armonia - Osservatorio sul Diversity Management della Sda Bocconi su Maternità e costi aziendali.

«L’esiguità della cifra si scontra con la percezione, diffusa nel mondo produttivo, che la maternità sia un costo rilevante per le imprese e costituisca perciò un serio handicap allo sviluppo delle carriere femminili» - ha affermato Simona Cuomo, coordinatrice del Laboratorio. «A fronte di mille analisi concordi nell’individuare una relazione positiva tra presenza delle donne nelle posizioni di comando e risultati economici delle imprese» - ha detto Cuomo - «in Italia si sprecano risorse e potenzialità».

La ricerca della Bocconi si è basata sulla somministrazione di un questionario ad aziende, manager di risorse umane e alle madri, per analizzare il peso che hanno, per ciascuna figura professionale, gli elementi considerati più limitanti per l'occupazione femminile:

- i costi vivi della maternità, dovuti alla dipendente dal datore di lavoro, che comportano una spesa;

- i costi riferibili a sostituzioni, riorganizzazione del lavoro, aggiornamento della dipendente al rientro, incertezze circa i tempi e la durata delle astensioni che, pur non comportando un esborso economico, vengono percepiti come estremamente importanti in quanto implicano un significativo sforzo gestionale per l'azienda.

La comparazione internazionale dimostra chiaramente che non vi è alcuna relazione tra la generosità del sistema dei congedi (di maternità e parentale, la cosiddetta "facoltativa") e l’occupazione delle madri, e che il sistema italiano non è poi così generoso come il mondo produttivo ritiene. Se un indice della generosità del congedo di maternità ci colloca infatti al terzo posto in Europa dopo Austria e Olanda, in quanto a congedo parentale siamo parecchie posizioni indietro.

La ricerca ha dimostrato che, se per la donna il costo maggiore legato alla sua maternità è quello "vivo" dovuto al calo della retribuzione e alle spese necessarie per servizi che le consentano di lavorare, per i datori di lavoro e per chi gestisce le risorse umane il "costo" più pesante è quello attribuito alle difficoltà di pianificazione e di organizzazione nel periodo in cui la donna si asterrà dal lavoro, al suo reintegro e al suo aggiornamento. 
 
Questi disagi, però, potrebbero essere minimizzati dando spazio a servizi e modalità organizzative più flessibili, quali il part-time, il telelavoro, programmi di couching per accompagnare il rientro, l'invio di materiale informativo per mantenere vivo il rapporto durante la maternità, colloqui per verificare l'interesse della neomamma a essere coinvolta già prima del rientro, convenzioni con asili nido o agenzie di babysitting per alleviare il costo sociale della maternità.

Non meno importante è la creazione di una relazione basata sulla fiducia, sulla stima e il rispetto tra azienda e dipendente, che consenta alla donna di negoziare e pianificare la propria maternità tenendo conto anche delle esigenze aziendali, grazie ad un clima non ostile o pregiudiziale, ma rispettoso delle sue necessità.

Di fronte a questi dati è difficile pensare che le organizzazioni non siano in grado di reggere economicamente l'assenza per maternità di una propria collaboratrice, considerando che statisticamente questo accade molto raramente. Eppure le cifre indicano che nel 2007 il 42,3% delle imprese prevedeva di assumere in preferenza uomini, il 18,2% donne e il 39,5% era indifferente. Ciò evidenzia come generi ancora forte diffidenza l'assunzione di una donna "a rischio" maternità.

Altro stereotipo da sfatare è che ad un maggior impegno della donna nel mondo del lavoro si leghi un decremento delle nascite. Anche questo non è più vero: almeno dagli anni '80 i paesi che hanno fatto registrare un aumento dell'occupazione femminile, adottando politiche adeguate, hanno anche aumentato il tasso di natalità. Mentre l'Italia è ancora agli ultimi posti, sia come occupazione che come incremento demografico.

È importante quindi diffondere informazioni corrette sui costi sociali ed economici delle maternità e rifondare i sistemi organizzativi del mondo del lavoro secondo modelli più vantaggiosi per tutti.

 

 

Michela Barbiero