Le false notizie, una tesi in cerca di conferme

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«La verità non ha mai vinto, ma è sempre stata, invece, un mezzo per la vittoria, come la spada». Max Stirner, L'unico e la sua proprietà, Parte Seconda, II, III

 In un celebre romanzo di Jonathan Swift (Gulliver's travels into several remote nations of the world, Benj. Motte, London, 1726) il protagonista sbarca nell'isola di Glubbdubdrib. «E' grande circa un terzo dell'isola di Wight, ed è straordinariamente feconda: ne è governatore il capo di una certa tribù composta tutta da maghi». La caratteristica più saliente del Paese è che la corte è servita da domestici dell'altro mondo. Infatti, «per mezzo della sua virtù negromantica il governatore può chiamare chi voglia dal regno dei morti e costringerlo a prestargli servizio per non più di ventiquattro ore». Una volta abituatosi alla novità, Gulliver si lascia un po' prendere la mano. 

 

«Sua Altezza – racconta – mi invitò a chiamare tutti quelli che desiderassi, per quanti fossero, tra coloro che erano morti dalle origini del mondo, e di comandar loro di rispondere a tutte le domande che mi piacesse fare; sola condizione è che tali domande rimanessero entro i limiti di tempo in cui essi erano vissuti. Di una sola cosa potevo star sicuro: che mi avrebbero detto la verità, poiché la menzogna è un'abitudine inutile nell'oltretomba». Così, rievocando filosofi ed eroi, intere dinastie reali e battaglie, Gulliver scopre che «nel campo di Annibale non c'era una sola goccia di aceto», che Alessandro Magno non era stato avvelenato, ma era morto a seguito di una sbornia colossale, e che Omero aveva degli occhi vivaci e penetranti; soprattutto scopre quanto il mondo sia stato ingannato da storici prostituiti, «i quali lo hanno indotto ad attribuire le maggiori imprese di guerra a codardi, i consigli più saggi a pazzi, sincerità a adulatori, virtù romana a traditori del proprio paese, pietà religiosa a miscredenti, castità a sodomiti, veracità a delatori». Ma in Swift, il disprezzo per gli storici e per gli scrittori di aneddoti confluisce in una generale scarsa considerazione per l'umano-Yahoo, sordida bestia antropomorfa che possiede tutti i caratteri di Teofrasto e che è crudele in quanto incapace di pensiero razionale. Per Swift non esiste la speranza del riscatto: l'umanità è destinata a vivere nella menzogna. Ma le false notizie che hanno descritto il passato sono solo frutto della ribalderia degli scrittori?

Nel 1921 è apparso, sulla rivista Revue de Synthèse Historique l'articolo Réfléxion d'un historien sur les fausses nouvelles de la guerre. L'autore, Marc Bloch,è uno di quegli scrittori in cui vita e opere si confondono. La vicenda umana e il lavoro di Bloch hanno soddisfacente collocazione nel quadro della storiografia francese della prima metà dello scorso secolo; tuttavia, è proprio dell'autore la valutazione di esperienze personali alla luce dei propri studi.

Di famiglia ebreo-alsaziana, figlio di Gustave, professore universitario di storia antica e nipote di un direttore scolastico, Bloch nasce a Lione nel 1886; morirà nel 1944 a Saint-Didier-de-Formans, in circostanze destinate a circonfondere per sempre la sua figura da un alone di eroismo.

Dopo brillanti studi secondari, si iscrive alla Scuola Normale Superiore di Parigi; dal 1919 sarà professore di storia medievale a Strasburgo, e dal 1936 di storia economica alla Sorbona. Sostenitore, con l'amico e collega Lucien Febvre, di una nuova storiografia, di impronta fortemente socializzante, intende valorizzare quella contrapposizione elaborata da Simiand (in un celebre articolo del 1903, Méthode Historique et science sociale),tra il metodo storico descrittivo-cronologico che prende la forma del racconto e un metodo analitico e classificatorio, proprio della scienza e rivolto alla spiegazione. Nel 1929 Bloch partecipa alla fondazione, con il gruppo di Strasburgo di Febvre, degli Annali di storia economica e sociale, in aperta rottura con il metodo imposto dalla scuola positivista.L'elemento di novità è il coinvolgimento, nello studio della storia, di altre discipline, dalla geografia alla sociologia; così, all'università di Strasburgo si assiste alla contaminazione, anche metodologica, tra differenti scienze sociali. La posizione interpretativa di Bloch, pur ardita, risulterà intermedia tra quella di Seignobos, che negava ogni realtà ai fenomeni collettivi e sociali, e quella del sociologo Durkheim, che, pur avendo introdotto concetti importanti per l'autore, come quello di coscienza sociale, di fatto escludeva l'individuale dalla spiegazione del sociale. Bloch sarà fautore di una scienza unitaria dei fenomeni psico-sociali, dotata di un proprio metodo analitico e sperimentale di studio.La difesa della posizione centrale dell'uomo lo porterà, tuttavia, in un atteggiamento polemico nei confronti della sociologia durkheimiana.

Bloch partecipa in prima persona ai due conflitti mondiali. Per quanto concerne il primo, i Souvenirs de guerre 1914-1915, l'articolo sulle fausses nuovelles e diversi altri documenti permettono di ricostruire con buona precisione il percorso dell'autore, come uomo e come sergente di fanteria. E' la guerra vista da una prospettiva particolare: nulla di simile agli affreschi di Polibio, Cesare o Flavio Giuseppe. Poco si capisce dell'andamento complessivo del conflitto, delle strategie e dei movimenti di massa: l'intenzione dell'autore è quella di descrivere la «propria» guerra, quella vissuta in prima linea, in trincea, combattente tra i combattenti. Ciò che emerge è l'esperienza personale, il primo rombo di cannone a Montmédy, le due tazze di caffè-brodaglia che una contadina gli offre ad Hans-le-Juvigny, la vista dei primi feriti della battaglia della Marna, l'odore nauseabondo dei cadaveri («i morti dei grandi combattimenti non conoscono la maestà del riposo eterno»), l'inseguimento del nemico, i cesti colmi di granate, il freddo pungente, la boscaglia falciata dalle mitragliatrici, le veglie notturne «con la baionetta in canna», il ferimento da schegge di proiettile tedesco, il disprezzo per un comandante arrogante e la stima per un altro «che possedeva quel dono misterioso e magnetico che fa di un uomo un capo», le azioni eroiche, quelle malvagie, le «piccole mediocri vigliaccherie» e altre emergenze di questo genere. Bloch non è stato il primo storico ad andare i guerra, ovviamente. E neppure il primo a descrive il conflitto da una prospettiva particolare: si pensi a Senofonte o al conte di Segur. Ma il tono dei Ricordi è, intenzionalmente, di basso profilo, poiché non tende, pur partendo dal particolare, alla ricostruzione generale di un evento. La sensazione è che la percezione prevalga sul concetto. Complessivamente, l'autore si mostra compiaciuto di aver preso parte al conflitto, di aver combattuto per la Francia: è convinto che un'azione di guerra possa essere eroica.E, siccome la minaccia della morte rende tutti uguali, il colto e poliglotta Marc Bloch si concede il lusso del paternalismo nei confronti delle truppe. Ma la sottile trama dei ricordi assurge, in Bloch, al valore di testimonianza nel solo caso in cui trionfi la regola dell'immediatezza, valendo le memorie soltanto se fissate nella loro freschezza originaria. Lo scrittore, come il ritrattista, fissa ciò che vede e una volta per tutte per evitare, per dirla con Maxime Du Camp, che «la bobina della memoria si srotoli da sé», consegnando ai lettori e ai postumi una serie discontinua e lacunosa di immagini.

Non è il caso, in questa sede, di soffermarsi sulle vicende relative alla seconda guerra mondiale. Basterà ricordare la partecipazione dell'autore alla Resistenza e l'incontro con la tortura e con la morte, avvenuta ad opera dei nazisti.

L'articolo sulle fausses nouvelles è strutturato in tre paragrafi. Il primo chiama anzitutto ad ausilio dello storico una nuova scienza, la psicologia della testimonianza. L'assunto, riscontrabile anche in altri testi blochiani, è che i più non si accorgano neppure di quanto siano rare le testimonianze esatte in tutte le loro parti, e che giacché la memoria è uno strumento fragile e imperfetto, lo storico affronta talora testi che non sono altro che finzioni, meri riflessi di ricordi incerti. Già nell'opuscolo Critica storica e critica della testimonianza, dello stesso periodo delle fausses nouvelles, l'autore rivendica i meriti della critica storica, «l'arte di discernere nei racconti il vero, il falso e il verosimile», che aveva permesso di cogliere il carattere leggendario di tanti racconti; ma sottolinea anche le regole della critica della testimonianza, «che non sono un gioco da eruditi», ma derivano dai principi del metodo critico e dal confronto delle versioni. Nelle fausses nouvelles il soccorso della psicologia della testimonianza è richiesto con forza. «Non esiste un buon testimone - sentenzia l'autore – né deposizione esatta in ogni sua parte». Non resta che ricorrere alla nuova disciplina, che all'epoca non aveva neppure superato i 20 anni di vita. Eppure, il testo non ne dà una definizione precisa, supponendo, evidentemente, una cultura specifica del lettore suqueste cose. Bloch si limita ad affermare, nelle note, che «la "letteratura" della psicologia delle testimonianze è già considerevole, essendo composta soprattutto da articoli di rivista, dispersi in numerosi periodici». Block cita Varendonck e La psychologie du témoignage, opera «priva di idee originali», ma che costituirebbe «una buona guida» e conterrebbe «una buona bibliografia». Il primo scorcio dell'articolo si mostra assai parco, e poco consequenziale, anche negli esempi. Si mette a confronto un brano della Sancti Bernardi vitadi Guglielmo di Saint-Thierri (Liegi, 1075 – Signy 1148), in cui si celebra l'ascetismo del santo di Chiaravalle, con un esperimento scientifico tenuto dal professor Claparède a Ginevra. Il brano è scritto nel verso del classico schema agiografico medievale, secondo il quale l'autore si fa interprete, per il beneficio della cristianità, del messaggio del santo, che vive naturaliter un rapporto privilegiato con la divinità. Si racconta che San Bernardo si accorse, un giorno, che tre finestre, e non una sola, illuminavano l'abside. Questa circostanza, presumibilmente falsa, o comunque riferita da un uomo che, subito dopo l'incontro con il Chiaravalle, ebbe a scrivere che «se quel giorno avessi potuto scegliere, l'unica cosa che avrei voluto sarebbe stata di rimanere sempre con lui per servirlo», viene paragonata ad una esperienza "classica" sulla fragilità della testimonianza. Éduard Claparède, (1873-1940), medico e psicologo svizzero, sottopose a 54 dei suoi allievi un questionario contenente una quindicina di domande banali relative ai locali dell'università. Nessuno seppe rispondere con esattezza, ed emerse che studenti che frequentavano l'istituto da diversi anni non fornivano risposte più sicure di quelle delle matricole. Da tutto ciò, Bloch deriva che siamo tutti simili al Chiaravalle, nel senso che «tutto avviene come se la maggior parte degli uomini si muovessero con gli occhi aperti a metà in un mondo esterno che essi non si degnano di guardare». Secondo Bloch, bisogna prendere molto sul serio la «lezione di scetticismo» degli psicologi, e rammentare, «al fine di ripulire con mano più abile l'immagine del passato dagli errori che la offuscano», che «le notizie false, in tutta la molteplicità delle loro forme – semplici dicerie, imposture, leggende – hanno riempito la vita dell'umanità». Quest'ultima affermazione sembra in grado di porre in grave difficoltà chiunque intenda affrontare il testo con una qualche serietà. Il comportamento di Iago, una voce di paese e il mito hanno davvero la stessa origine? Può darsi, ma è lecito attendersi, prima di scardinare due secoli di progresso nell'antropologia e nell'antropologia filosofica, un'analisi ancorata a qualcosa di più robusto che semplici indizi.

Ma qual è la genesi delle false notizie? Gli esperimenti di laboratorio, quelli degli psicologi, non sono bastevoli, secondo Bloch, a chiarire la questione. Si fa l'esempio di una sperimentazione «sul campo», quella di Litz (Franz Von Listz), professore di criminologia a Berlino: consisteva nella simulazione di un attentato. Gli studenti, posti di fronte al dramma, furono interrogati a scaglioni, a seconda del tempo trascorso: la sera stessa, una settimana dopo, cinque settimane dopo. Ma la falsa notizia ebbe vita breve: «a partire dall'ultimo interrogatorio – spiega Bloch – agli studenti non fu più nascosta la verità». Questo genere di test, chiarisce l'autore, mostra un limite consistente: il numero di persone coinvolte. Appunto perché si tratta di esperimenti di laboratorio, la falsa notizia non diventa mai voce pubblica, leggenda metropolitana, e sono sempre e solo interrogati i «testimoni diretti». Bloch confronta questo dato con l'ampiezza e la persistenza dei miti che una falsa notizia, nata altrimenti, può generare.

Ad un certo punto l'autore si concede in anticipo tutto ciò che il saggio ha per scopo di dimostrare. La realtà è un'altra, spiega. Le false notizie della storia nascono, probabilmente, da osservazioni individuali inesatte, o da testimonianze imprecise; ma l'errore si propaga solo se trova nella società «un terreno di coltura favorevole».E qui il discorso si amplia senza precisarsi. Esistono, afferma, dei grandi stati d'animo collettivo, in grado di «trasformare in leggenda una cattiva percezione». Non è dunque la psicologia individuale a dover essere chiamata in causa, ma quella collettiva. Per questo i test di laboratorio funzionano sino ad un certo punto; ma la sorte ha regalato all'umanità un «vasto esperimento naturale», che ha moltiplicato all'ennesima potenza i sentimenti dei popoli, rendendo evidenti «nessi essenziali tra diversi fenomeni» che altrimenti resterebbero oscuri: la Grande Guerra.

Nel secondo paragrafo gli scorci sintetici lievitano, e le asseverazioni astratte oscurano le ricerche empiriche. Il salto in avanti causato dall'introduzione della psicologia collettiva è anche un balzo laterale, e si ha l'impressione che lo scrittore perda l'equilibrio. Il supplemento di prova, peraltro, necessario a seguito del clima apodittico indotto dalle "rivelazioni" del primo paragrafo, sembra consistere in un insieme di argomenti deplorevolmente modesti.

L'autore prende in considerazione «quattro studi relativi alle false notizie» di guerra. Il primo è Les Fausses nouvelles de la Grande Guerre di Lucien Graux, opera in sette volumi che, per ammissione dello stesso Bloch, non è il caso di prendere troppo seriamente: infatti, raccoglie «quasi esclusivamente» notizie di stampa, cioè il frutto della propaganda, delle manipolazioni del potere e della censura, come quasi sempre accade durante i conflitti. Nonostante ciò, Bloch si stupisce delle contraddizioni che emergono in diversi giornali a proposito degli stessi avvenimenti: il caso del ministro degli Interni Louis Malvy, fautore della pace bianca e condannato a cinque anni di esilio, e quello del pacifista Bolo-Pasha, accusato di aver ricevuto una somma consistente dai tedeschi e fucilato. L'autore sottovaluta la strepitosa inventiva dei giornalisti, nonché la posizione genuflessa che tengono nei confronti del potere, e si limita ad ipotizzare, nel testo e nelle note, una certa «incresciosa abitudine», quella di preparare in anticipo i testi.

Il secondo è un saggio di Albert Dauzat, Légendes, prophéties et superstitions de la guerre. «Essai agréable», sfortunatamente dedica solo un centinaio di pagine alle false notizie: il resto è destinato a leggende e riti superstiziosi. Questi, per Dauzat, non nascono spontaneamente né traggono origine dall'errore: sono immessi nel corpo sociale da persone astute, ambiziose, che bramano la fama o vogliono pubblicizzare un prodotto. Bloch cita Nénette e Rintintin, pupazzetti di lana e stoffa che figli, mogli e sorelle regalavano o confezionavano per i soldati francesi del fronte. Non è il caso di perdere troppo tempo con le mascottes, ma è certo cheBloch abbia ragione: la tesi di Dauzat è parziale e radicale, e si potrebbe consultare una vastissima letteratura per confutarla. Un solo appunto sui feticci: non tutti sanno che il sostantivo latino persona derivi, con tutta probabilità, dalla maschera etrusca del phersu.Ma chi era questi? Un condannato a morte costretto, per il divertimento della plebagliae con la testa chiusa in un sacco, a combattere contro un mastino. Un laccio avvolto attorno al collo, alla gamba e al braccio, limitava i suoi movimenti. La mazza che gli veniva concessa per difendersi, difficilmente poteva essere utilizzata con un qualche vantaggio; quando gli riusciva e prima di essere sopraffatto, egli menava qualche fendente al vento. Si sa che i romani importarono dagli etruschi il circo, lo spettacolo della morte. Il primo romano che ha chiamato qualcuno con l'appellativo di persona – e lo avrà fatto di certo inconsapevole dell'immensa fortuna che il termine avrebbe avuto – ha consegnato i posteri al ruolo di feticci ambulanti della condizione umana.

Il terzo è un'allocuzione pronunciata nel 1918 alla Royal Historical Society da Sir Charles William Chadwick Oman, famoso storico militare. Questi, nello sforzo «di illustrare la psicologia della Voce attraverso l'esame di incidenti capitati nel corso della guerra» introdusse il tema della leggenda dei rinforzi russi. Nel corso del conflitto, nelle retrovie francesi e inglesi, si era sparsa la voce che la Russia (ancora zarista, del 1914) avesse inviato contingenti di sostegno alle truppe degli alleati occidentali. Non è certo – ammette Bloch – come sia nata questa favola, e neppure se sia originaria della Francia o dell'Inghilterra; ma l'autore «ha l'impressione» che sia sorta simultaneamente in entrambi i Paesi, perché la psicosi collettiva «era dappertutto la stessa». Insomma, sia gli inglesi che i francesi nutrivano un «desiderio appassionato» di vedere rafforzato il fronte e tutti contavano sul prestigio militare della Russia, immensa riserva d'uomini. Perciò, date eguali condizioni, in termini di stato d'animo collettivo, e dato un certo elemento in grado di accendere il meccanismo,si ha lo stesso risultato. Così la pensa Bloch.

Il discorso apparentemente "sillogistico" si ripete nel caso del quarto studio, Comment naît un cycle de légendes, Francs-Tireurs et atrocités en Belgique, di Fernand van Langenhove. Lo stato d'animo collettivo è quello degli occupanti tedeschi, soldati stremati dalle marce, dagli alloggi cattivi e dalla mancanza di sonno; strappati alle famiglie, sono nutriti da racconti della guerra franco-prussiana del 1870, quelli relativi alle prodezze dei feroci franchi tiratori francesi. L'elemento scatenante è l'ostilità della popolazione belga, nonché un evento fortuito, e cioè che alcune feritoie tipiche delle costruzioni delle Ardenne, che servono per fissare le impalcature degli imbianchini, somigliano a postazioni da cecchino. Il risultato è una sterminata serie di leggende sulle atrocità delle popolazioni occupate.

Con il terzo paragrafo si entra nel campo della metafisica. L'autore cita una falsa notizia di cui ha potuto osservare «con estrema esattezza» la genesi. E' il settembre del 1917. Il suo reggimento, che occupa un settore a nord della piccola città di Braisne (si pronuncia bren), è chiamato a fare prigionieri; cattura una sentinella originaria di Brema (si pronuncia bremen, e in francese brem). Di qui la voce che si tratti di una spia tedesca a Braisne. Ora: si sa che i francesi non brillano con le lingue; Schopenhauer rimproverò agli Accademici di Francia di non saper pronunciare il greco. Ma da un semplice errore di interpretazione di un termine, commesso dalla soldataglia, Bloch fa derivare il seguente percorso logico: c'era, presso le truppe francesi, uno stato d'animo collettivo dominato dalla paura della prodigiosa rete di spionaggio tedesco e dall'idea del tradimento; la città tedesca è stata inconsapevolmente confusa con quella francese, a causa del clima favorevole a tale disguido; si è sviluppata una falsa notizia che ha preso il largo. Può sembrare strano, ma non è colpa mia.

Per certi aspetti, è inutile ricorrere ai precetti della logica per demolire lo schema. L'espressione e meris affermativis in secunda figura nihil sequitur, che si adatterebbe di per sé alla struttura del testo, è superata, in linea di principio, dal problema delle definizioni. Infatti, gli interrogativi vertono tutti intorno alla nozione di stato d'animo collettivo;questa induce intrinsecamente all'errore, e priva di qualsiasi effetto le conquiste blochiane. Che cos'è? Una categoria dello spirito? Una modalità della possessione? Un sentimento? O, più probabilmente, una forma di specializzazione (quasi un superlativo) del denkkollectiv, il pensiero collettivo introdotto nella letteratura da Durkheim e Fleck?

Un esempio può dirimere la questione. Nel corso del Rinascimento esploratori e marinai diffusero un'immagine che, una volta scostato col dito il velo della ridicolaggine, si presta a considerazioni definitive: mentre i cristiani affogavano con il volto rivolto al cielo, i non credenti (nella «vera religione») affondavano miseramente con il volto fisso verso le profondità dei mari, verso l'inferno. Ci sono diverse testimonianze in tal senso, concernenti la battaglia di Lepanto. Un Bloch avrebbe affermato: c'era la guerra coi Turchi, la cristianità era in pericolo; accadde, una volta, di vedere questo fenomeno, che divenne voce perché tutte le menti tendevano già verso questa direzione. Il fenomeno, però, si ripeteva immancabilmente in luoghi diversi del globo, e in riferimento a popolazioni con le quali "non eravamo" in guerra: indiani, caribi, cinesi e altri. Questo perché l'immagine era frutto di una rappresentazione del pensiero collettivo, e non dello stato d'animo collettivo. Delle due l'una: o si ammette che lo stato d'animo collettivo non esista come categoria autonoma, ma che sia una semplice affettazione del denkkolletiv, o lo si fa confluire in qualche ambito metafisico, come la balzachiana teoria delle epoche, secondo la quale queste "deteignent sur les hommes qui les traversent".

Come è noto, del denkkollectiv esistono due versioni «originarie». Quella di Durkheim, alla quale Bloch non aderì mai interamente, e quella di Ludwik Fleck, che non sono certo che Bloch abbia mai conosciuto. Secondo il primo, esistono delle categorie, come il tempo, lo spazio e la causalità, che hanno un'origine sociale e che esprimono «i rapporti più generali che esistono tra le cose: esse (...) dominano tutti i particolari della nostra vita intellettuale. Se ad ogni istante gli uomini non si accordassero su queste idee essenziali (...), ogni accordo (...) diverrebbe impossibile tra le intelligenze». Qualsiasi società, dice Durkheim, non può fare a meno di un minimo di conformismo logico. C'è una mente superorganica, che si riscontra facilmente nella tribus "primitiva", e che esercita una vera e propria sovranità sui singoli individui. Fleck estende il discorso alla società "attuale". Esistono diverse comunità di pensiero, tutte caratterizzate da un'élite interna di iniziati al centro e dalla posizione esterna delle masse. «Il conoscere – afferma – è l'attività dell'uomo sottoposta al massimo condizionamento sociale e la conoscenza è la struttura sociale per eccellenza». Insomma, per Fleck una certa società ragiona così perché è così, e non potrebbe capitare altrimenti. Ma Durkheim e Fleck erano due funzionalisti, e puntavano dritto al pensiero istituzionale. Che si parta dagli aborigeni o da un'altra comunità attuale, l'intento è quello di descrivere non solo l'orizzonte culturale, ma il funzionamento stesso delle istituzioni. Dopo di loro, lo sforzo degli studiosi si è concentrato in questa direzione.

Non sono certo che il concetto di rappresentazione collettiva si possa estendere alle voci e alle leggende metropolitane. Qualche analogia tra le scoperte di Bloch e gli apporti successivi di Evans-Pritchard, Merton e Bartlett di fatto esiste; ma non appare sorretta da un serio apparato probatorio.

In tutti i casi, è erroneo attribuire sistematicamente, come fa Bloch, la genesi della falsa notizia ad una rappresentazione collettiva preesistente, si trattasse anche di un'induzione di genere culturale. Per esempio, per circa mille anni gli abitanti di una certa parte d'Abruzzo erano rimasti persuasi del fatto che la collina di Cantalupo si chiamasse così a causa di un evento raccontato nel Chronicon Casauriense: durante la costruzione di un castello un tizio, tal Lupo, «secundum morem vigilantium munitiones», di frequente cantava. Per questo «vulgus arrisit» ripetendo: «Cantat Lupo», e da ciò l'origine del toponimo. In realtà questo deriva dal mongolo-tartaro Ken Teleped, e significa "residenza del capo". Ma ciò che importa è capire come si sia arrivati a questo fraintendimento. Il monaco compilatore, Giovanni Berardi, si è inventato tutto perché, con tutta probabilità, non sapeva cosa scrivere in proposito. La gente gli ha dato credito perché era una storiella divertente e perché proveniva dall'istituzione più importante del luogo, l'abbazia di San Clemente a Casauria.

Infine, è destituita di qualsiasi fondamento l'opinione di Bloch secondo cui le false notizie nascono «laddove possono incontrarsi uomini che provengono da gruppi diversi». Anche qui, si potrebbe citare una sterminata letteratura per confutare questo assunto; ci limiteremo ad un esempio preso dalla migliore cultura letteraria, coeva a Bloch.In un romanzo di Céline (Voyage au bout de la nuit, Édition Denoël, 1932) il protagonista, Bardamu, si imbarca per l'Africa. Non è un esploratore né un missionario né un benefattore: l'Africa è nel suo immaginario un continente da fumetto, nel quale egli si ripromette di trafficare in avorio, in schiavi ed animali. Accade, ad un certo punto del viaggio, che il protagonista viene preso di mira, anche con brutali insinuazioni, dall'intero contenuto umano del piroscafo Amiral Bragueton. Egli non si capacita delle ragioni di tanta avversità, giacché a bordo nessuno lo conosce; analizzando la situazione, però, scopre che c'è qualcosa che segna una differenza ineluttabile tra Bardamu e i suoi compagni di viaggio, tutti funzionari coloniali e militari dell'esercito coloniale: egli appare diverso; e non solo da questo o da quell'ufficiale, ma dall'intera combriccola imbarcata. Questa differenza, accettata in condizioni di normalità, e cioè secondo un ordinario decorso delle cose umane, diviene la molla di una trappola "tribale" non appena le cose si complicano, non appena dei fattori ambientali influiscono in modo concreto sullo spirito di conservazione della comunità. Accade che, superate le coste del Portogallo, le cose iniziano a guastarsi. «Irresistibilmente – racconta Bardamu – fummo dominati da un ambiente da stufa, infinitamente inquietante». Ciò viene percepito come una anticipazione della malattia e della morte; la tribus (nel senso di gruppo non latente) conosce i rischi ai quali è esposta, e che costituiscono clausole del modello d'adesione che organizza il branco, parte del "contratto", per così dire. Le condizioni ambientali condivise, il rischio diffuso ma non spartito, sono vessilliferi di dolore e sofferenza, ma anche elementi unificanti, articoli fondamentali in termini di coesione:lavorano ai fianchi della comunità e di chi sente di appartenervi. Quel che si leggerà tra le righe del testo céliniano è che, date certe condizioni ambientali comportanti un rischio in termini di sopravvivenza, la natura umana si rivela nettamente per ciò che è, e l'uomo, insolente, menzognero e corrotto, si mostra tanto ossequioso e servile verso il potere riconosciuto, quanto zelante e velenoso verso colui che per un qualche motivo non appartiene a tale potere. Il potere è la tribus, e questa stringe i ranghi nella difficoltà; o meglio: è neldisagio che il fenomeno della coesione degli appartenenti emerge con più evidenza. Ciò che rileva, ai fini di questo lavoro su Bloch, è che non è possibile la percezione della differenza, percezione che genera la calunnia, senza l'assoluta coesione del branco.

 

Marco de' Francesco

28 dicembre 2007

 

pro captu lectoris habet fatum suum libellus (vicende di uno scritto)

 

 

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