È vero: l'automotive è il grande malato dell'industria italiana, ed è una ragione forte del recente crollo della produzione industriale, che nel dicembre 2018 ha perso il 5,5% rispetto allo stesso periodo del 2017. Il comparto in sé vale 96 miliardi di euro, il 6% del Pil, mentre la componentistica collegata quasi 47 miliardi. Il calo del 12,3% dell'automotive si è tirato dietro anche quello del 9,2% dei fornitori, con rimbalzi in altri comparti, come la plastica, l'elettronica e le lamiere. Ed è vero che quella dell'auto è una questione continentale: è stato lo zelo europeo sulle emissioni di Co2 a mettere al tappeto linee produttive di carmaker, in Germania più che in Italia. Ma è anche vero che questa crisi di settore non spiega per niente la flessione di comparti che hanno poco a che vedere con l'auto, come l'alimentare, il tessile, il legno e come il farmaceutico che, forte e resiliente, dopo anni di corsa a due cifre ha perso il 4,5%. E non chiarisce neppure perché la Commissione Europea abbia rimodulato la stima di crescita italiana allo 0,2% per il 2019 (da precedente previsione dell'1,2%) rispetto all'1,3% di aumento medio nell'Eurozona. In pochi mesi, per l'Italia, è cambiato tutto. L'industria prima e le istituzioni internazionali dopo hanno percepito che si prospetta per il Paese una "crisi di sistema", che si verifica quando saltano i fondamentali. E ciò è avvenuto perché l' Italia, già gravata da un eccesso di debito sovrano, ha voltato improvvisamente le spalle al ricettario mainstream di soluzioni europee od Ocse, mettendo in atto provvedimenti in materia fiscale e pensionistica ritenuti, anche dall'agenzia di rating Fitch, anti-competitivi e controproducenti.
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26 febbraio 2019
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