Tre anni dopo. Reportage dai luoghi del terremoto

torre di finale emiliaPADOVA - Esattamente tre anni fa Matteo Bugliaro e Alessandro Alessandroni, fotoreporter, si aggiravano per l'Emilia per testimoniare i danni provocati dal terremoto del 20 maggio 2012. Era il 29 maggio. Dovevano monitorare la situazione e valutare i primi interventi in funzione della ricostruzione a 10 giorni dal primo sisma. Invece si ritrovano loro malgrado a testimoniare un'altra, più cruenta realtà. Questo è il loro reportage, con le foto originali di allora. Per non dimenticare. - La Torre dell'Orologio di Finale Emilia è il simbolo del terremoto. Lunedì 21 Maggio 2012 tutti i principali quotidiani riportavano in prima pagina la foto dell'orologio dimezzato. Il surreale orologio molle, che ha resistito qualche ora, per poi crollare anch'esso, con tutta la torre. Ma da allora il tempo non si è fermato e nemmeno la terra.

 


Sono passati dieci giorni esatti da quella lunga notte tra sabato e domenica in cui la terra ha cominciato a tremare. Il nostro intento è partire da Padova e ripercorrere i luoghi colpiti dal sisma, per renderci conto della situazione. Per vedere con i nostri occhi a che punto è la messa in sicurezza delle infrastrutture e la ricostruzione.

Martedì 29 Maggio 2012. Ore 9.00. Uscita Ferrara Nord. Fermi al casello la macchina comincia a ondeggiare come una barca investita dalla scia di un altro natante. Ci guardiamo attorno per individuare il mezzo che ci ha sorpassati e ha creato lo spostamento d'aria. Ma nessuna macchina è passata, nessun mezzo pesante, sono tutte ferme in colonna. Ancora non ci rendiamo conto. Il casellante sembra sotto shock, ci dice «Questa era forte, non era una scossa normale». Squilla il telefono, Alessandro, il fotografo professionista che mi accompagna, risponde al cellulare, chiamano da Padova: «L'hai sentita?». Poi sapremo, 5.8. Dovevamo fare un servizio su come la gente stava reagendo, puntellando, ritornando lentamente alla normalità. Ci troviamo catapultati in una tragica realtà. Pensavamo di trovare una terra convalescente, invece ci accoglie un territorio di nuovo ferito. E questo è il suo brutale benvenuto.

Proseguiamo verso le zone colpite dal sisma, mentre cerchiamo alla radio qualche notizia di questa ultima scossa. Proviamo anche a telefonare a qualcuno che ci possa dare qualche indicazione, che possa guardare la televisione o connettersi a internet. Stranamente le linee sono fuori uso. Percepiamo che sia accaduto qualcosa di grave. In questi momenti, passata la paura e l'angoscia, il primo istinto è chiamare i propri cari, sincerarsi che stiano bene, chiedere dov'erano e trasmettersi le proprie sensazioni. Scaricare la tensione e condividere. Per questo le linee vanno in tilt e in questo momento sono completamente intasate. Le notizie alla radio sono ancora contraddittorie, mentre cominciano ad arrivare le telefonate degli ascoltatori che chiamano per testimoniare in diretta, dai paesi in cui più si è avvertita questa ultima scossa. Noi decidiamo di fermarci in un bar, a Menarda, e di capire come ha reagito la popolazione.

Ovviamente non si parla d'altro. La giovane barista parla di un concerto di bottiglie indicandoci la mensola in alto sopra il bancone e ci dice 4 morti; l'ha sentito alla radio. Epicentro verso Mirandola, nel modenese. Tutti gli avventori raccontano dov'erano e cosa facevano. Nessuno in queste zone scorderà mai, anche a distanza di tempo, dove si trovava quando c'è stato il terremoto dell'Emilia. È passata soltanto mezz'ora, la parola ricorrente è paura. Una signora era al supermercato «Non riuscivo più a stare in piedi, all'inizio non ho capito, il carrello si allontanava e io non riuscivo a raggiungerlo, dagli scaffali è cominciata a cadere la roba e tutti hanno cominciato a urlare, una cosa tremenda, una paura mai provata, neanche la prima volta». Si parla della terra come di cosa viva, un animale apparentemente mansueto che si anima e respira. Sembra proprio di stare sulla schiena di un grosso animale che si risveglia dopo centinaia d'anni di sonno, dopo cinquecento anni di sonno, si stira e si scuote per uscire dal suo torpore e noi, avvinghiati al suo dorso, balliamo.

Entra la signora Susanna Padovani, zia della barista, è venuta a sincerarsi che la nipote stia bene. È di fretta, ha chiamato un suo operaio che non riesce a contattare l'anziano padre. C'è il timore che possa essere successo qualcosa nella vecchia casa in cui vive. L'abitazione, già lesionata dal primo sisma, potrebbe aver avuto altri danni, mentre il padre dell'operaio non aveva voluto abbandonare l'abitazione. Ci rendiamo disponibili ad accompagnare la signora, che ci fa strada con il suo pick-up bianco. Arriviamo così a Mirabello. Ad un certo punto la strada principale è bloccata, ci sono delle transenne e un presidio dei vigili urbani, ma la signora Susanna sterza sulla destra e dopo altre traverse nei vicoli del paese arriviamo sul posto. Parcheggiamo la macchina davanti a un negozio che ha un montarozzo di sabbia all'esterno (foto1). La signora Susanna si affaccia dalla soglia e saluta. Entriamo anche noi. All'interno non c'è più niente: il pavimento è completamente divelto, il massetto irregolare e le piastrelle si presentano su piani sfalsati, come se una forza misteriosa avesse voluto emergere dal sottosuolo (foto2). «Questo è l'effetto della prima scossa», ci dicono i proprietari. Iniziamo a capire che la gente comincia a dividere: i danni del 20 Maggio, da quelli di questo nuovo evento sismico. Così arriviamo a casa dell'anziano padre dell'operaio della signora Susanna, è seduto fuori, all'ombra, forse per questo non sentiva il telefono che squillava all'interno. In cortile c'è una grossa fenditura nel terreno che attraversa l'intera area antistante la casa, anche lui ci dice: «Quella c'era già», riferendosi alla prima grossa scossa, come fosse cosa normale.

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La signora Susanna ci dice: «Seguitemi». Insieme al marito Stefano è titolare della Ditta Benatti, costruzioni metalliche e montaggi industriali, ma forse sarebbe meglio dire era. Ferma il pick-up bianco davanti a un cumulo di macerie, sono in piedi soltanto i piloni di cemento, il tetto è completamente crollato (foto3). «Abbiamo rimosso tutto con le nostre forze - ci dice indicandoci un'autogru parcheggiata nel cortile - Non c'è rimasto più niente, gli automezzi erano all'interno e sono distrutti anche quelli, per non parlare dei macchinari, solo macerie e una puzza, una puzza di ammoniaca che saliva dal terreno, una cosa mai sentita». La signora Susanna è piccola, ma esprime una forza tenace, ha solo voglia di ricominciare, stanno già cercando un altro capannone per ripartire «Il problema è che adesso lo cercano tutti e i prezzi di quelli disponibili sono saliti alle stelle, ci vorrebbe un controllo anche su quelli che se ne approfittano, anche questo è sciacallaggio». Le diamo ragione e le diciamo coraggio, ma lei non ne ha bisogno, non ha un minimo di commozione, solo rabbia e voglia di ripartire. Cominciamo così a scoprire pian piano la gente dell'Emilia.

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In via del Lavoro, nella zona industriale di Mirabello, ci sono altri capannoni distrutti, per fortuna senza che nei crolli ci siano state vittime: c'è la Ditta di carpenteria pesante di Turolla e la Cam di Cesare Carandina, quest'ultima sembra la più lesionata, il capannone sembra un fiore di cemento repentinamente sbocciato, i petali delle pareti sono adagiati per terra, dischiusi violentemente verso l'esterno (foto4). Camminiamo con difficoltà nel cortile come attorno a una zona bombardata, ci sono macerie e detriti dappertutto. Nella zona retrostante stanno salvando il salvabile «Una commessa da due milioni e mezzo di euro - ci dice il titolare - In gran parte distrutta, mentre era pronta per la spedizione in Brasile». Ci chiede di quant'era la scossa del mattino, ma noi ancora non lo sappiamo. «Sarà inferiore ai 6, ve lo dico io, ci diranno sempre inferiore ai 6, perché se è superiore bisogna dichiarare la calamità naturale e deve intervenire la Comunità Europea, invece così sono affari nostri, non ci dà una mano nessuno, lo Stato ancora non s'è visto, solo l'associazione di categoria, il C.N.A, s'è mossa e ha fatto qualcosa, per il resto niente, ma noi non molliamo, bisogna fare i complimenti al gruista», infatti l'operaio muove enormi capriate e tralicci di metallo vicino ai resti pericolanti del capannone, dimostrando un enorme coraggio. È il coraggio dei lavoratori di questa terra, che poi sapremo che per la voglia, forse frettolosa, di ripartire con la produzione, sarà stata in alcuni casi fatale, a soli pochi chilometri da qui.

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Torniamo verso il centro del paese: dappertutto capannelli di persone, forze dell'ordine, fuoristrada dei pompieri e dei volontari della protezione civile, case transennate o delimitate da nastro bianco e rosso, pezzi di cornicioni, di poggioli e di comignoli per terra. In piazza il campanile della chiesa è ancora in piedi, sarà una sorprendente costante di tutti i paesi e le piccole frazioni che visiteremo nel corso di questa lunga giornata. Le chiese per la maggior parte distrutte, con le cupole e i tetti collassati completamente all'interno della navata centrale, mentre i campanili, che diresti più instabili e pericolanti, sono tutti, seppur lesionati, al loro posto. Quasi con dignità, svettano nel cielo contro ogni forza avversa (foto5). Circumnavigando la chiesa raggiungiamo un Centro per gli anziani, che sorge proprio accanto alla parrocchia. I degenti sono raccolti all'ombra di grandi olmi, attorno a un tavolo stanno mangiando silenti, a pochi passi dalla chiesa distrutta. Sembrano pallidi, impauriti. Forse subiscono uno straniamento temporale. Hanno il ricordo di altre rovine, di una guerra che hanno vissuto. Per loro è un brutale viaggio nel tempo. Mentre sull'argine vicino passa un gruppo di ragazze vocianti, sono allegre perché hanno evacuato la scuola e non si sa quando riaprirà, ridono e scherzano dirigendosi verso casa.

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Noi ripartiamo da Montebello per raggiungere San Carlo, frazione di Sant'Agostino, paese che ci dicono stia sprofondando per un fenomeno simile a quello delle sabbie mobili, per cui è stato in gran parte evacuato già nei giorni scorsi. Riprendiamo la strada e lungo la statale si susseguono i casolari e i fienili distrutti, tutti costruiti in mattoni che ora giacciono in cumuli informi simili a pezzi di lego di scarto. Alcuni sono rasi al suolo, altri con i tetti sfondati, altri ancora con grosse crepe nelle pareti e visibilmente pericolanti. Ai campi coltivati, verdi e ordinati, si susseguono anche altre zone artigianali dove i danni sono molto evidenti: ci fermiamo davanti alla Ditta Vega, Lamiere e Carpenteria, il cui capannone è completamente distrutto e di fronte c'è la Como Painting di Pietro Como. La visione che ci appare è surreale. Le pareti del capannone hanno infatti resistito alla forza d'urto del terremoto, mentre il tetto è completamente crollato. La porta è aperta e all'interno c'è un cumulo di macerie: il tetto in eternit caduto che ricopre una macchina, il muletto e tutti i macchinari (foto6). Il signor Pietro ci dice che anche la casa adiacente è stata dichiarata inagibile infatti, da dieci giorni, vivono in un container posizionato nel cortile dell'abitazione: lui, la moglie, il figlio e la nuora incinta. Avrebbe voglia di ricominciare e ha già trovato un capannone che ci indica in fondo alla strada: «Ma c'è troppa burocrazia - ci dice - Ci vuole l'allacciamento della corrente e ci vuole tempo, ci vogliono i permessi, l'agibilità e intanto noi siamo fermi, le commesse le abbiamo, ma i clienti non aspettano». Poi ci accenna ad una teoria per noi nuova, che spiegherebbe il terremoto. Pare che nella zona tra Rivara e Massa Finalese abbiano fatto dei sondaggi nel terreno, anche con grosse cariche esplosive, per ricercare il punto più adatto per un grosso deposito di metano, per questo è nato anche un famoso Comitato No-Gas. Questo spiegherebbe il movimento sismico, ma noi rimaniamo scettici.

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Verso mezzogiorno raggiungiamo la frazione di San Carlo. All'ingresso del paese c'è un agente della polizia municipale che ci intima di non oltrepassare la zona rossa con la macchina e di fare attenzione anche a piedi. Quello che notiamo subito, procedendo, è che la strada è piena di sabbia, fenomeno che non avevamo riscontrato negli altri paesi oltrepassati. In mezzo a un campo, poco più avanti, ci sono quattro figure chine su dei macchinari: sono dei sismologi che stanno compiendo delle misurazioni del terreno. Sono il geologo Arnaldo Boscherini e don Martino Siciliano, Direttore dell'Osservatorio Sismico, insieme a due assistenti del servizio Geologico e Sismico della Regione Umbra, che con un sismometro, l'ENAC Elettronic, stanno misurando la risonanza del sottosuolo (foto7). Poco prima sono stati presso Palazzo Sessa Aldrovandi che ospita il Museo della Civiltà Contadina, per documentare di una voragine apertasi ai bordi di un campo, profonda un metro e larga tre. Mentre ora stanno compiendo misurazioni per spiegare il fenomeno della liquefazione delle sabbie. Ci spiegano infatti che in seguito ai movimenti tellurici vengono compresse le falde, essendo l'acqua incomprimibile entra in pressione e crea il fenomeno dei fontanazzi, fuoriuscite di acqua e sabbia dal terreno. In seguito allo spostamento dell'acqua e delle sabbie si formano delle cavità che rendono il terreno franoso e cedevole. Pare che vi sia ampia letteratura in merito, ma mai è stato riscontrato un fenomeno di tali proporzioni come qui a San Carlo, dove stanno arrivando ricercatori e esperti dalle Università di tutta Italia. «Vedete?» Il dott. Boscherini si china e ci mostra nel palmo della mano la sabbia superficiale che ricopre il campo nel quale siamo, è una sabbia scura, cinerea (foto8): «Basterebbe una composizione poco più argillosa perché il fenomeno non avvenisse, infatti la concomitanza di tre fattori crea il fenomeno della liquefazione: primo la falda sub-superficiale, a 15-20 metri, qui a San Carlo è a 2 metri dal suolo, una magnitudo intorno ai 6 gradi e in ultimo una composizione del terreno di sabbie fini omogenee». Questo spiega la liquefazione, ma non il terremoto. Ci risponde don Martino, un sacerdote atipico che mischia Scienza e Teologia e che ovviamente non crede alle punizioni divine, né all'imminente fine del mondo, ci parla come assente, digitando sovrappensiero, sul suo Ipad. «Questo sisma in particolare è un tipico terremoto compressivo dell'arco esterno dell'Appennino, che crea una deformazione del territorio - ci spiega - E qui, trovandoci nel paleoalveo del Reno, che ha deviato il suo corso, si trovano le sabbie sottili lasciate nel letto del fiume e il terreno è instabile ed è facile che si formino cavità e caverne nel sottosuolo. Il centro della terra è ignoto e inesplorato, quanto lo spazio siderale, ognuno se lo immagina come vuole e fantastica come gli pare, agli scienziati è dato dare risposte». Le sue parole ci appaiono improvvisamente profetiche, sembra che alle visioni del paradiso preferisca il sondaggio dell'inferno e ci ricorda Verne e il suo viaggio al centro della terra, dove nel sottosuolo si aprono volte simili a cattedrali e laghi sotterranei sui bordi dei quali pascolano dinosauri erbivori. Che a questo punto, con queste scosse e con questi crolli, crediamo definitivamente estinti.

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Proseguiamo all'interno del paese e raggiungiamo la zona rossa. Ad un certo punto ci accorgiamo che stavamo camminando su una fenditura nell'asfalto, che taglia in due il paese, prima stretta, si allarga sempre di più in maniera irregolare, una ferita profonda che sfigura la strada (foto9).

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In via Rossini c'è la zona più colpita dal fenomeno dello sprofondamento e del cedimento del terreno. Al numero 31 abitava Giuliano Lodi, è fuori casa che aspetta la commissione degli agibilitatori del Nucleo Valutazione Regionale, composta da ingegneri di Ferrara e di Bologna. Ci permette di entrare nel giardino e i danni che riscontriamo sono notevoli: sotto la veranda d'ingresso, adesso rinforzata da dei cunei di metallo, si apre una voragine di mezzo metro (foto10).

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È evidente che il terreno ha ceduto lungo una direttrice che interessa anche le case vicine, sospendendole all'indietro rispetto alla strada. La strada stessa è tutta smossa, il marciapiede spezzato, sbriciolato, con profonde fenditure, il manto stradale divelto in più punti. Nei campi vicini ci sono veri e propri gradini nel terreno e crepe profonde. La casa vicina a quella del signor Lodi ha il tetto spezzato in due in maniera precisa, come un foglio di carta piegato, ma intatto. La casa prima ancora, al numero 27, di proprietà dei signori Borgi è in bilico, alla ricerca di un nuovo equilibrio. Quasi volesse appoggiarsi, di schiena, a un ulteriore muro che non c'è. Qua davanti s'è fermato il comitato degli ingegneri per verificare i danni strutturali subiti dalle abitazioni. Un giovane ingegnere entra in casa, contro il parere degli stessi proprietari presenti alla verifica di staticità, ne ammiriamo il coraggio o l'irresponsabilità. È quasi l'una. E la terra comincia a tremare. Forte, forte, sempre più forte. Osserviamo la casa oscillare pericolosamente, barcollare ubriaca. Urlano tutti, quando finalmente l'ingegnere esce di corsa dalla casa. È la prima persona che vediamo correre. Veri e propri attimi di terrore. Per fortuna la casa non ha subito ulteriori crolli. Più tardi sapremo che un tecnico è rimasto invece coinvolto nel crollo di un capannone in un paese vicino, mentre ne verificava l'agibilità. Passata la scossa l'ingegnere torna in casa, al primo piano, rassicurato dalla statistica: «È impossibile che si susseguano due scosse di grande entità nell'arco di pochi minuti», e oltrepassa di nuovo la soglia, mentre la proprietaria dello stabile, con una formazione meno scientifica del giovane ingegnere si fa il segno della croce. Ci spostiamo dall'altra parte del paese, in via Risorgimento, vicino alla chiesa c'è un'altra zona rossa. Le case sembrano più stabili e aver subito meno danni, ma la strada è piena di sabbia (foto11).

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La signora Beatrice Battaglia, seduta all'ombra sulla soglia di casa, alla fine della zona rossa, al numero 72, ci spiega che i cumuli di terra e sabbia fuori dalle abitazioni sono fuoriuscite dai pavimenti interni. Si sono formati dei fontanazzi e dei veri e propri geyser nelle case, inondandole di fango. Un fenomeno inusitato per cui hanno decretato l'evacuazione della zona. La sua casa ha fortunatamente subito meno danni, e ci mostra il comignolo schiantatosi nel giardino. Decidiamo di proseguire per Finale Emilia. All'uscita del paese il vigile urbano che staziona alla rotonda ci schizza una mappa per raggiungere più velocemente Finale, evitando possibili deviazioni. Ci disegna la strada con fare sicuro, la rotonda di Sant'Agostino, dritti fino a Buonacompra, girare al cimitero, poi a sinistra per via degli orologi, allo stop a destra e seguire la strada. È gente che conosce a memoria il proprio territorio, che è divenuto improvvisamente ostile. Sarà difficile ricucire le ferite, non solo quelle che abbiamo visto sulle strade e sugli edifici, e rimarranno le cicatrici, le stesse che abbiamo visto qui a San Carlo, profonde.

Ore 14. Decidiamo di fermarci a mangiare. Nel bar la televisione è accesa e sintonizzata sul telegiornale. Il bollettino di guerra dice 11 morti. Questa mattina si pensava di essere già all'armistizio, nessuno si aspettava di ripiombare nel terrore. Sullo schermo appaiono le immagini dei capannoni distrutti, le stesse che abbiamo visto con i nostri occhi, ma l'impressione è che il peggio sia verso il territorio di Modena. I morti sono da Finale Emilia in poi, verso San Felice sul Panaro, verso Mirandola. Ci rimettiamo in viaggio e subito appare chiaro che lo scenario si fa sempre più cruento. La chiesa di Buonacompra è rasa al suolo, i detriti gettati a metri di distanza, il campanile intatto (foto12). Si susseguono le case rurali distrutte e in ogni giardino ci sono tende e camper, o gente che riposa in macchina: le abitazioni sono diventate ostili, fanno paura. Interi quartieri, i più popolosi, vicino ai paesi, si sono trasformati in campeggi. Finale Emilia è una città fantasma. Non ci sono macchine, solo qualche bicicletta, con qualche anziano spettrale che girovaga inquieto. La cosa che fin da subito dà fastidio è il silenzio. Piazza don Giovanni Bosco è una tendopoli. Fuori dalle case qualcuno è seduto, come nei paesini del Sud, ma non alla ricerca di frescura, ma di una parola col vicino, che plachi l'ansia. Tutt'attorno è silenzio. Anche gli elicotteri che sorvolano il paese, sono troppo alti per sentirne il rumore. Producono un senso di irrealtà. Al termine di via Trento e Trieste si apre la piazza, il cui passaggio è impedito dalle transenne. Attorno ci sono i camper e i furgoni delle televisioni (foto13). Da qui vediamo il castello ferito di Piazzale Caroli, che è museo civico e la sede del centro ricreativo culturale R616. Vediamo anche i resti della Torre dell'Orologio, il simbolo dal quale eravamo partiti nel nostro pellegrinaggio. Ma di simboli, in questo viaggio nella distruzione né abbiamo visti tanti. Di questo rimangono solo macerie.

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Ci rimettiamo in viaggio verso San Felice sul Panaro. Presso Massa Finalese, subito dopo una curva a gomito, ci appare una vecchia fabbrica distrutta. Ci fermiamo proprio davanti, nella via per Modena. La signora Carla Malavasi è nel giardino della casa di fronte e ci informa che è un rudere molto scenografico quello che stiamo fotografando, ma era solo una vecchia fabbrica dismessa (foto14).

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«Certo quando è venuta giù, non vi dico il rumore» ci dice «Siamo usciti di casa al buio e non si vedeva niente per la polvere, completamente accecati e il rumore, quel rumore che ritorna alla mente e che continuo a sentire in sottofondo. Lì è la paura. Io vado avanti a tranquillanti e ad ansiolitici». Nel giardino ci sono due camper e delle tende. Questa notte oltre ai familiari verranno degli amici, perché di notte ci si sente più indifesi, essere colpiti nel sonno è peggio, così si riuniscono per farsi coraggio, per provare per quanto possibile a stare un poco in allegria. Continuiamo il nostro viaggio e presso una rotonda vediamo la Chiesa di Rivara, anch'essa lesionata. Il frontone è abbattuto, ma il tetto, evidentemente di recente costruzione, è rimasto quasi illeso. Vi sono i Carabinieri per la Conservazione e la Tutela del patrimonio culturale che stanno facendo un sopralluogo (foto15). Chiediamo il nome della Chiesa ma prima che possano rispondere sentiamo un urlo dall'altro marciapiede «Santa Maria Bambina di Rivara!». Non sappiamo se è un'implorazione o una risposta. Una sorta di monaco millenarista con la maglietta gialla e verde del comitato No-Gas a Rivara, ci si avvicina gesticolante, rivolgendosi ai carabinieri. «Bisogna mettere un telone per proteggere la chiesa dalle intemperie» dice «All'interno vi sono opere del Guercino e del Paliotti, ma specialmente l'organo, l'organo è del '600, è il più importante di tutta la bassa modenese, qui è una confluenza di cultura e di arte, tra Ferrara e Modena...» allarga le braccia con gli indici tesi, sembra un derviscio in procinto di roteare «...Vivevano e si muovevano gli Estensi, ecco il perché dei castelli a Finale, a San Felice eccetera». È Rebecchi Dr. Prof. Franco, ci mette in mano un biglietto da visita, veterinario e promotore del comitato No-Gas, contro le trivellazioni per il deposito di metano sul territorio, sta facendo il giro delle chiese e dei monumenti per vedere come intervenire al meglio. Lo lasciamo alle sue accalorate richieste.

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Noi proseguiamo per San Felice sul Panaro, che sembra avere la zona rossa più estesa tra quelle viste finora, pare l'avessero parzialmente riaperta, ma dopo la scossa di questa mattina l'hanno invece ampliata e maggiormente presidiata. Per entrare nel paese c'è una deviazione che costringe il flusso delle auto all'interno del piazzale del Molino Ariani, che ha subito gravi danni. Qui a San Felice per la prima volta vediamo l'esercito, oltre agli onnipresenti volontari della Protezione Civile. Andiamo a sincerarci delle condizioni del Castello (foto16), che appare fortemente lesionato, la chiesa alle sue spalle, nel centro storico, è quasi completamente distrutta. Rimane in piedi mezza facciata frontale, con un quadrato perfetto nella parte superiore destra (foto17). Le case vicine sono squarciate. Dietro, vicino alla stazione, c'è un campo di accoglienza, con le tende blu, come abbiamo visto a Sant'Agostino, a Finale Emilia e a San Carlo, ma questo è più grande, può contenere 400 persone e ce ne sono 5 in paese per una capienza di 1500 persone, ma il numero degli sfollati è destinato a salire.

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Ci dirigiamo verso Mirandola, epicentro del sisma. I danni che vediamo lungo la strada provinciale sono sempre più ingenti, i crolli più perentori. Si susseguono campi, che sembrano campeggi, ovunque ci sono tende e tutte le case sono evacuate, nessuno si fida di restare in casa, tantomeno di dormirci. Innumerevoli le case e i casali distrutti. Ci fermiamo vicino a un granaio, a Mortizzuolo di Mirandola, che ha un'apertura circolare sulla facciata. Sembra il rosone di una chiesa, apertosi nel passaggio dal romanico al gotico (foto18). Nel giardino c'è una famiglia attorno a una tenda e da un lettino si alza un anziano signore: «È il quarto oggi che si ferma a fotografare» ci dice. Tutti gli altri ridono (foto19).

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Poco più avanti c'è Confine, tra i comuni di San Felice sul Panaro e Mirandola. Vicino al Supermercato in Meglio c'è una casa crollata. Si vede l'interno, in parte intatto, una porta e a lato, sulla parete un piccolo orologio a pendolo che è rimasto appeso al muro. Un'altra stanza intatta, con tanto di lampadario ancora appeso, mentre davanti sono solo rovine (foto20). Nel giardino retrostante raggiungiamo una famiglia che sta piantando un gazebo, sono in quattro, ognuno con un paletto in mano, pronti a fissarlo nel terreno. Sono i gestori del supermercato e ormai ex abitanti della casa adiacente. Ci sorprendiamo che nel crollo non ci siano stati feriti, ma ci dicono che alla prima scossa la casa ha resistito e sono riusciti a mettersi in salvo, questa mattina è crollato tutto. Il più anziano è Napoleone Frigieri «Quel supermercato che vedete dava da lavorare a tre famiglie, ora è completamente inagibile, come anche la casa - ci dice - Ci hanno consigliato di abbattere tutto, quattro generazioni si sono susseguite in quel supermarket, quattro generazioni a partire dalla prima licenza del 1887, e adesso è tutto finito, ma noi abbatteremo e ricostruiremo, alla faccia di tutti e anche senza l'aiuto di nessuno». Ritroviamo la forza e la determinazione degli emiliani. Vicino a Mirandola vediamo in lontananza la zona industriale, dove abbiamo sentito alla radio che ci sono stati dei morti, vediamo le gru che stanno ancora lavorando in mezzo alle macerie. Ancora capannoni distrutti, ancora morti sul lavoro. Ora è ormai sera, sentiamo che la conta delle vittime è arrivata a 16 morti, bilancio ancora provvisorio. Mirandola, paese di Pico, qua la gente non potrà dimenticare. In paese ci sono pochissime persone, praticamente nessuno, la vita si è spostata nelle tendopoli. Raggiungiamo il campo base, con le tende blu della protezione civile, ci dicono che sta arrivando sempre più gente, nessuno dormirà in casa, anche se alcune case sono ancora agibili. Il campo è ordinato e c'è apparente tranquillità, quella terribile stasi che abbiamo sentito a Finale Emilia, quella tregua silente tra una scossa e l'altra. Quante veglie involontarie stanotte. Quante sentinelle insonni si chiederanno a che punto è la notte, aggirandosi nell'oscurità. Ci si prepara per un'altra notte inquieta, nella speranza che anche il grande animale sul quale siamo adagiati, stanotte, dorma sogni tranquilli.

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Noi siamo partiti da Padova con la speranza e abbiamo ritrovato la paura. Abbiamo trovato anche un altro emblema. Non più un simbolo astratto, scelto a priori, ma un dettaglio concreto, terribilmente reale. È quella pendola appesa all'unico muro ancora dritto, mentre tutto attorno è andato distrutto. Quell'immagine ci si è stampata sulla retina. Quell'orologio che ancora funziona. Perché stamattina il tempo si è azzerato di nuovo ed è ripartito. Tempo di ricostruire sopra le macerie.

Testo: Matteo Bugliaro Goggia

Foto: Alessandro Alessandroni


 29 maggio 2015

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