Diritto penale l'ho dato venti anni fa. Me lo ricordo ancora, quell'esame. Era pomeriggio, ma quasi sera. Prima di me, una ragazza si blocca di fronte all'assistente; non riesce più a spiccicare una parola. Il professore si infuria, si gonfia, cambia colore, esplode ("Non si fa così!!!") e le tira il libretto in testa. Altri tempi. La ragazza si allontana in lacrime e tra i banchi, il miglio verde prima dell'esame, cala un cupo silenzio. In questo clima, sento pronunciare il mio nome: tocca a me. Mi faccio coraggio, mi alzo, mi siedo di fronte alla commissione. E inizia il fuoco di fila. "Aberratio delicti, monolesiva e plurilesiva". Va beh, è il mio cavallo di battaglia: un figurone. Ancora: "Concussione, corruzione". Poi il professore cita un caso: "Che reato è?". Me la cavo, rintuzzo, combatto. "Successione delle leggi penali nel tempo: tutti i commi, spiegati". Poi, un'altra mezz'ora di tortura, che termina con la sentenza pubblica del professore: "Ha studiato". Prendo il mio 28 e me ne vado.
Ma ora – dico: ora - non è il caso di darsi troppe arie. Ne è passato troppo, di tempo, per affrontare la questione dottrina alla mano. Comunque sia, resto un cittadino: lavoro, pago le tasse. Faccio abbastanza, tutto sommato, per dire la mia. Perché quanto è accaduto all'avvocatessa di Pesaro Lucia Annibali, sfigurata con l'acido qualche giorno fa, è materia di una pubblica riflessione. E' accaduto a lei, ieri; accadrà ad altre, domani - se nessuno fa niente. Naturalmente, è bene non entrare nel teatrino delle ipotesi su presunti responsabili: se ne occupi la magistratura. Invito chi legge ad osservare le cose da un'altra prospettiva. Io, infatti, subito mi sono chiesto: ma cosa rischia il responsabile? Ebbene, come evidenziato dai giornali, l'ipotesi di reato per cui si procede è "lesioni personali gravissime". Si applica la reclusione da sei a dodici anni, se dal fatto deriva: una malattia certamente o probabilmente insanabile ; la perdita di un senso ; la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l'arto inservibile, ovvero la perdita dell'uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella ; la deformazione, ovvero lo sfregio permanente del viso.
Il fatto è che l'articolo 585 del codice penale, che definisce le circostanze aggravanti dell'articolo 582 (lesioni personali: un fatto dal quale deriva una malattia del corpo e della mente) circoscrive sì le ipotesi "di massima gravità", ma è viziato da un malinteso nella logica delle cose.
Per fare un esempio, ho deciso di riconciliarmi, per un attimo, con il linguaggio caro alla sinistra hegeliana. Ecco: se uno mi priva dell'uso di una gamba, è una perdita – per me; ma se fa di me un mostro, ciò è una perdita – di me. Se divento zoppo o cieco, ciò avrà pochi effetti sulla mia cerchia di amici; se divento un mostro, ciò avrà conseguenze devastanti sulla mia vita privata e pubblica – dal momento che anche entrare in un bar per un caffè mi risulterà penoso. Se perdo un arto, resto me stesso con una parte di meno; ma se qualcuno devasta il mio volto, mette in discussione non solo la mia identità, ma anche il mio sacrosanto diritto di presentarmi al prossimo come la natura ha voluto; e di ricordare in ogni istante me stesso come oggetto di un'evoluzione naturale; in sintesi, mi priva del diritto di associare un'anima a un corpo – il mio. Perché, per dirla con Wittgenstein, il volto è l'anima del corpo.
Un aforisma di Joubert, per capire: "La persona è propriamente nel volto; solo la specie è nel resto". Nella nostra cultura, cioè, immagine, identità e dimensione ontologica coincidono. Un bene, un male? Non lo so. In fondo, un portato della società attica, che progredì definendo "tipi a sé". E della società romana: anche gli esponenti della classe senatoriale si facevano riprendere, per ritratti e sculture, con rughe, occhiaie e calvizie. Impensabile in Persia, Egitto o Cina. E solo da noi il termine persona deriva da una maschera tragica: il phersu etrusco (a sua volta, forse, un adattamento di πρόσωπον, il "volto" per i Greci). Prima l'identità, poi il corpo; e poi, il branco. In sintesi, da noi negare l'identità significa uccidere la persona.
Pochi anni fa, nel Regno Unito si sono trovati ad affrontare un caso simile. Capita nel marzo 2008 a Katie Piper, bellezza inglese mozzafiato, giovane modella e conduttrice televisiva. Il fidanzato Daniel Lynch, violento e geloso, assolda un picchiatore senza scrupoli, tal Stefan Sylvestre, che fa ciò per cui è pagato: le devasta il volto con l'acido, in un parco londinese. La ragazza rimane sfigurata, cieca e impossibilitata a alimentarsi autonomamente: si legge su wikipedia che l'acido le ha causato ustioni a tutto spessore; per curarla, i medici le hanno indotto il coma farmacologico per 12 giorni, durante il quale il peso della ragazza è sceso a 38 chili. La giustizia inglese, tuttavia, ha agito con prontezza e severità: Lynch è stato condannato a due ergastoli; Sylvestre a uno.
Da noi, invece, finirà a tarallucci e vino. Dodici anni di massima; e sento già soffiare, impetuoso, il vento della buffonata generale. E se il responsabile fosse incensurato? E se chiedesse il rito abbreviato? Il rischio è che sconti, in concreto, solo tre o quattro anni di carcere; l'altra metà della pena, in semilibertà. E' normale? Secondo me, no. Di qui il mio appello alla politica: si deve separare la "deformazione del viso" dal dettato del 585 c.p. e farne un delitto a parte (per i casi a venire, ovviamente). Considerandolo per ciò che è: un reato identitario, e cioè di negazione dell'identità - male perpetuo e assai più rilevante della privazione della libertà personale. E uno dei principi che ricordo di aver studiato per l'esame di venti anni fa è la proporzionalità tra pena e reato. Un confronto a questo punto si impone, soprattutto con il sequestro di persona a scopo di estorsione: se uno mi rapisce e chiede soldi per la mia liberazione, rischia almeno 25 anni. Ma non è impossibile che col tempo e la psicoterapia io riesca a superare l'accaduto. Se invece uno fa di me un mostro, ci sarà sempre uno specchio a ricordarmi come sono stato ridotto. Quindi il crimine identitario va punito con una pena più adeguata: da quella prevista per sequestro di persona a scopo di estorsione (25 di minima; 30 anni di massima) a quella stabilita per omicidio doloso (21 anni di minima).
20 aprile 2013
immagine di Katie Piper dopo l'aggressione, dal sito Look at her beautiful face
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