La
manovra di ferragosto ci ha “regalato”, tra le tante novità,
quella di poter regolare, diversamente rispetto al passato, i rapporti
di lavoro nelle aziende. Alla base dovrebbe esserci un accordo aziendale
preso con la maggioranza delle rappresentanze sindacali che sostanzialmente
dovrebbe intervenire modificando la prestazione lavorativa, gli orari
e l’intera organizzazione del lavoro rendendola più flessibile
alle situazioni di crisi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale
dell’impresa. L’accordo di prossimità (così
definito perché più vicino all’azienda) prevede la
possibilità di introdurre, con efficacia generale per tutti i dipendenti
che lavorano nell’impresa, una disciplina che deroga ai principi
del contratto nazionale collettivo ma non alle limitazioni poste dalla
costituzione o dalle norme comunitarie internazionali.
Il legislatore, con la norma in esame, ha voluto, dunque, rendere possibile
la regolazione di specifici sistemi di lavoro tra l’azienda e le
forze sindacali al fine di combattere la disoccupazione, migliorare la
qualità dei contratti di lavoro ottenendo maggiore partecipazione
dei lavoratori alla produttività. La conseguenza di tutto questo
dovrebbe portare all’emersione del lavoro irregolare, agli incrementi
di competitività e, quindi, di salario, alla gestione della situazione
della crisi aziendale ed occupazionale ed, infine a nuovi investimenti
ed all’avvio di attività innovative.
Parte dei sindacati, dei politici e dei lavoratori stessi è contraria
all’introduzione di questa “novità” in quanto
la lettera e) del secondo comma dell’artico 8 permette di superare
le disposizioni dei contratti collettivi e di scegliere le modalità
di assunzione del dipendente e di recesso dal rapporto di lavoro. Sulla
base di tale assunto il contratto di prossimità potrebbe, ad esempio,
in ipotesi di licenziamento escludere la reintegrazione del dipendente
e stabilire diversamente il risarcimento del danno.
Molti leggono in questa nuova legge uno strumento atto a fortificare la
posizione dell’imprenditore il quale, potendo stabilire dei parametri
di assunzione e licenziamento diversi da quelli stabiliti dai CCNL , disporrebbe
dei mezzi legittimi per ledere i diritti del lavoratore dipendente a vantaggio
dell’azienda. Pur rispettando tale interpretazione non posso proprio
condividerla.
L’articolo 8 della legge 148/2011 costituisce un’opportunità,
un primo passo verso il dialogo e l’accordo con i sindacati, una
possibilità concreta per creare nuovo lavoro in un momento di crisi
dove le imprese sono schiacciate dai debiti e dall’onerosità,
ormai diventata insostenibile, del costo del lavoro. La giusta chiave
di lettura della norma è data dalla situazione economica che stiamo
vivendo in questi ultimi anni dove parole come crisi, disoccupazione,
aumento delle imposte, crescita del debito pubblico, pil ai minimi storici
sono diventate talmente normali che non ci preoccupano più. Credo
che questa disposizione debba aiutarci ad analizzare la condizione da
un altro punto di vista ovvero quello dei lavoratori che si affacciano,
in questo particolare momento, al mondo del lavoro, o almeno ci provano!
Non
esistono solo lavoratori da tutelare ma esistono anche e soprattutto giovani
disoccupati da integrare.
Il mercato di oggi offre stage non retribuiti, contratti a progetto, contratti
a collaborazione coordinata e continuativa che a mio avviso non sono altro
che surrogati di veri rapporti di lavoro ma costituiscono un escamotage
per l’imprenditore per pagare meno contributi e non assumersi gli
oneri e i doveri di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Non sarebbe
dunque tutto più semplice se l’imprenditore potesse sentirsi
più libero nell’assumere nuova forza lavoro senza essere
soffocato da tutti quei vincoli che impone un’assunzione vera e
propria? Non sarebbe forse meglio diminuire gli oneri a carico dell’azienda
e del lavoratore al fine di aumentare l’occupazione e magari anche
i salari?
Certo,
probabilmente ciò comporterebbe la rinuncia alle tutele garantite
dai contratti nazionali ma almeno si avrebbe la possibilità di
aprire le porte ai giovani a cui ogni accesso al mondo del lavoro è
diventato davvero troppo difficile. Ci si deve rendere conto che i tempi
sono cambiati, che il paese ha bisogno in questa situazione di stallo
economico di riprendersi e di adeguarsi anche a forme e modalità
lavorative nuove e più “snelle”.
La
norma deve essere considerata come il risultato di una presa di coscienza
del contesto in cui ci troviamo a vivere e come un primo piccolissimo
passo verso un obiettivo comune: la ripresa economica ed occupazionale
generale del nostro paese. Ogni cambiamento richiede coraggio, sacrificio,
rinunce ma la lotta per conquistare “un nuovo mondo” penso
debba diventare la battaglia di tutti.
Garantendo il rispetto della volontà dei lavoratori, l’accordo
del 28 Giugno costituisce, se utilizzato correttamente, una speranza di
“rilancio” augurandoci che non sia solo pura utopia.