IL DOPO EMERGENZA
Alluvione, è tempo
di guardare avanti
Cinque miliardi per un Veneto
sicuro
Tanto servirebbe per realizzare
gli interventi di salvaguardia indicati da Bertolaso
VENEZIA —
Cinque miliardi di euro. Un argine di banconote per fermare la furia dell’acqua.
Tanto costerebbe mettere in sicurezza i fiumi, i canali e i torrenti del
Veneto, a quel che si dice nei corridoi della Regione. E’ una stima,
perché di dossier e censimenti finora non ne sono mai stati fatti,
ma i tecnici si stanno mettendo in moto alla svelta, perché il
capo della protezione civile Guido Bertolaso ha picchiato duro («La
sciagura si sarebbe potuta evitare, se si fossero fatti gli interventi
che chiediamo da anni. Madre natura non tiene conto dei Patti di stabilità
e delle Finanziarie») e perché l’assessore regionale
all’Ambiente, Maurizio Conte, vuole sapere al più presto
dove e come intervenire. «Il sistema di difesa non sarà mai
perfetto, perché non sapremo mai quanto pioverà, per quanto
tempo, dove si romperà l’argine - spiega Conte - ma da qualche
parte dobbiamo pur cominciare, perché la straordinarietà
sta diventando una consuetudine. Stileremouna lista di priorità
e lì concentreremo le prime risorse disponibili».
In cima all’elenco
ci sono una ventina di fiumi, tra cui il Piave, il Bacchiglione, il Muson
dei Sassi e il Brenta, tutti al centro dell’emergenza di questi
giorni. Si dovranno realizzare le casse d’espansione, i bacini di
laminazione, i bypass e gli invasi rimasti finora solo sulla carta: perché
costavano troppo, perché avevano impatti ambientali devastanti,
perché la gente non li voleva e dunque la politica ha preferito
scordarsene. Come nel caso del Piave, emblematico a detta di Conte: «Lungo
il fiume sacro alla Patria sono stati piantati in questi anni centinaia
di alberi che costituiscono un rischio enorme per la sicurezza, visto
che alla prima piena vengono sradicati e, trasportati dalla corrente,
finiscono per incastrarsi sotto le campate dei ponti, creando un tappo
che può avere effetti catastrofici. Li volevamo tagliare e subito
è nato un comitato: siamo stati costretti a creare una commissione
di studio che ci dica quali piante segare e quali no. Un’assurdità».
Dopo
i grandi fiumi (e in particolare il «nodo di Padova», che
si vorrebbe sciogliere con la nuova idrovia) toccherà alla rete
secondaria, ossia ai corsi d’acqua più piccoli, ai canali
ed ai torrenti, che fanno meno paura ma tuffandosi uno dopo l’altro
nello stesso letto danno vita allo tsunami di fango. Basti pensare che
Caldogno, paese simbolo del disastro veneto, non è stato inondato
dal Rio della Amazzoni ma dal Timonchio, un torrente che, detto per inciso,
si sarebbe potuto far sfogare nel bacino di laminazione già progettato,
già finanziato e mai realizzato. Dove si troveranno i soldi? Qualche
idea c’è, anche se arrivare ai cinque miliardi necessari
sembra un’utopia. «Il primo passo sarà realizzare interventi
non mastodontici ma essenziali, come la pulizia degli alvei, d’intesa
con i Comuni - spiega Conte - e chiedere più risorse a Roma, visto
lo stato di calamità. A lungo termine, invece, dovremo prevedere
che una parte delle opere di compensazione inserite nei project financing,
specie per le infrastrutture che incrociano i corsi d’acqua, siano
destinate alla salvaguardia dell’equilibrio idrogeologico e potremmo
utilizzare le cave di ghiaia come casse di espansione». E non sarebbe
male pure aderire al protocollo del governo per le aree a rischio. Ci
sono 2 miliardi e mezzo a disposizione e il Veneto non si è manco
messo in fila.
Marco Bonet
Corriere
del Veneto, 4 novembre 2010
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