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Sotto il Partenone i campanelli di allarme stanno già suonando

 

Grecia come Dubai, dopo l’Argentina:

come nasce la crisi del debito pubblico 

 


COS'E' IL DEBITO PUBBLICO

     Per semplicità, immaginiamo che lo Stato sia una normale persona, con un lavoro, una famiglia, un mutuo… Immaginiamo dunque che questa persona abbia uno stipendio, che regolarmente spende per mantenere se stesso e la propria famiglia; poniamo inoltre che per acquistare automobile o elettrodomestici abbia acceso un prestito che richiede annualmente il pagamento di una certa somma. Dunque lo stipendio incamerato verrà sostanzialmente suddiviso in spese per mantenere se stesso, spese per mantenere la propria famiglia e rate per ripagare il debito e gli interessi. Poniamo infine che per un motivo qualsiasi le spese aumentino oppure che lo stipendio diminuisca cosicché non sia più possibile continuare a pagare le rate del debito ma sia necessario accendere un nuovo prestito personale, da ripagare negli anni successivi, effettuando una cosiddetta ricapitalizzazione del debito.

Questa estrema semplificazione rappresenta bene la situazione della quasi totalità delle nazioni nel mondo. Ogni Stato riceve infatti annualmente delle entrate (le tasse) la cui entità dipende da molteplici fattori sostanzialmente legati alla quantità dei beni prodotti e quindi al totale dei redditi ricevuti dai residenti durante l’anno. Ogni Stato ha poi delle spese che sono sostanzialmente di due classi: da un lato vi è la spesa corrente, composta della spesa per il mantenimento dell’apparato burocratico (quella che prima chiamavamo “spesa per mantenere se stesso”) e dalla spesa per l’erogazione dei servizi sociali quali sanità, istruzione, supporto al reddito, eccetera (la “spesa per mantenere la famiglia”); dall’altro lato vi è la spesa finanziaria, ovvero le uscite che finiscono in rate ed interessi sul debito.

Anche il caso della ricapitalizzazione del debito è un atto che interessa annualmente moltissimi Stati. La questione non è esattamente semplice, ma proveremo anche qui a semplificarla. Oltre ai prestiti per finanziare la spesa corrente, storicamente i bilanci (entrate meno uscite) statali sono spesso in deficit, ovvero le uscite superano le entrate, rendendo via via necessario finanziare questo disavanzo e quindi aumentare il debito complessivo. Il risultato di questa costante corsa ai finanziamenti è stato un aumento esponenziale dei tassi di interesse e dunque dell’importo delle rate che sono così divenute talvolta difficili da ripagare comportando una ricapitalizzazione e dunque un ulteriore aumento del debito statale complessivo.  

COS'E' IL DEFAULT SOVRANO

     Da questo “semplice” meccanismo può facilmente nascere un default del debito sovrano. Con “crisi del debito” o “default del debito” intendiamo infatti l’impossibilità di ripagare il debito contratto. Tornando alla semplificazione iniziale dello Stato come persona, il default è paragonabile alla situazione in cui il debitore non sia più in grado di pagare il debito e per questo i creditori procedano con il pignoramento. Tuttavia, se per una persona fisica la soluzione è abbastanza semplice, per uno Stato l’uscita da una situazione di default è particolarmente complessa se non altro perché, a differenza delle persone fisiche, ad uno Stato sovrano è pressoché impossibile pignorare alcunché.

La dichiarazione di sospensione dei pagamenti, come è tecnicamente chiamato un default, porta con sé infatti alcune pesanti conseguenze. In verità già prima della dichiarazione di default le conseguenze cominciano a prendere forma: in primo luogo vi è una immediata corsa al ritiro dei crediti. I creditori di un Governo sono infatti i soggetti più diversi: si va dalle banche d’investimento nazionali e straniere fino alle persone fisiche, residenti nel paese o no.

Chiunque abbia provato a chiedere un prestito o un mutuo in banca sa che per ottenere l’importo è necessario fornire delle garanzie, generalmente consistenti in beni reali, rendite o quant’altro di certo. Ora, non potendo fornire lo Stato nessuna garanzia reale (nel senso che non può ipotecare  i beni pubblici e il ripagamento del debito è garantito solamente dal gettito erariale), quale investitore privato o corporativo sarà disposto a concedere ulteriore denaro ad un soggetto in seria difficoltà nel pagare i debiti contratti in precedenza? Un soggetto disposto ad assumersi questo tipo di rischio in verità esiste ed è rappresentato dal binomio Fondo Monetario Internazionale/Banca Mondiale, ma le esperienze degli ultimi vent’anni suggeriscono che non è una strada priva di rischi e che se non gestito correttamente un prestito da parte del FMI altro non fa che posticipare l’inizio del tracollo.

Tralasciando questa ipotesi e tornando alla dichiarazione di sospensione dei pagamenti, risulta chiaro che il default comporta una vera e propria fuga dei creditori e il taglio del credito – il cosiddetto “credit crunch”.  Le conseguenze sono di due tipi: in primo luogo il deficit di bilancio non è più finanziabile e dunque il Governo dovrà operare in assenza di credito potendo contare sui soli introiti delle tasse; inoltre non sarà neppure rifinanziabile il debito precedentemente contratto e anzi sarà necessario pagare tutte le scadenze e gli interessi per potersi garantire un ritorno sul mercato dei capitali, cioè ottenere nuovi finanziamenti. 

PERCHE' UNO STATO ARRIVA AL DEFAULT

      La sospensione dei pagamenti, abbiamo detto, è una extrema ratio a cui uno Stato giunge dopo un lungo processo di deterioramento dei conti pubblici. Il perché questo si manifesti in tempi di recessione economica è presto detto. Tecnicamente un periodo di “recessione” consiste in un tempo (in genere almeno alcuni trimestri) di diminuzione della produzione rispetto al periodo precedente. In parole povere: l’economia “gira meno”, ci sono meno scambi quindi si producono meno beni e servizi, i posti di lavoro vengono tagliati e quindi il reddito medio e complessivo/aggregato dei residenti diminuisce. Questo comporta la diminuzione della somma totale di tasse e imposte che vengono pagate, quindi si profilano delle minori entrate per le casse dello Stato.

Per effetto della stessa recessione poi, la richiesta di spesa sociale aumenta esponenzialmente: l’aumento del ricorso alla cassa integrazione guadagni, l’aumento della popolazione sotto la soglia di povertà, la necessità di incentivi alla produzione industriale e altre misure d’urgenza richiedono una politica “espansiva” – cioè di aumento – della spesa pubblica. Associate questa seconda circostanza alla diminuzione delle entrate descritta poc’anzi e capirete facilmente come la situazione dei conti pubblici degeneri per qualsiasi Governo si trovi ad affrontare una crisi economica di un certo peso.

Certo, la crisi dei pagamenti non è una conseguenza automatica della crisi economica, anzi! Il problema risiede nel comportamento fiscale del Governo in tempi di benessere e, in generale, di “non crisi”. E’ importante in tempi di aumento dei livelli economici che il Governo aumenti le uscite in misura non maggiore dell’aumento delle entrate. Con parole più chiare: ogni Stato è chiamato a diminuire il deficit di bilancio in tempi di bonaccia, in modo da essere preparato ad operare in deficit in tempi di crisi economica che – come dimostra la storia – è un fenomeno ricorrente. Viceversa, uno Stato abituato a lavorare in deficit di bilancio, se non è sufficientemente sorretto da un tessuto economico in grado di resistere alle crisi rischia di trovarsi in serie difficoltà al mutare della congiuntura.  

CHE SUCCEDE IN GRECIA

     La Grecia non è entrata in default, diciamolo subito. I campanelli di allarme stanno però suonando tutti. In primo luogo il deficit di bilancio si è attestato per il 2009 al 12,7%, contro una stima a inizio anno di poco meno del 4%. E’ il più alto deficit registrato nei paesi dell’area euro, dopo quello dell’Irlanda, new entry tra i paesi a rischio default. Inoltre, il Prodotto Interno Lordo (cioè la ricchezza totale prodotta nell’economia da cui, come abbiamo capito, dipendono le entrate e le uscite dello Stato) non accenna a tornare in terreno positivo e anzi si è registrata una diminuzione dello 0,3% nel terzo trimestre di quest’anno – stiamo parlando di circa 1 miliardo di dollari di ricchezza in meno – mentre la maggior parte delle nazioni cominciavano a registrare tiepidi segnali di uscita dalla crisi.

Risultati, come abbiamo detto, pesanti ma prevedibili in condizioni di forte contrazione economica mondiale come è stato il 2009. Tuttavia, un rapido sguardo indietro ci fa capire dove sono nati i problemi. Tra il 2006 e il 2008, gli anni d’oro dell’economia mondiale, ormai completamente ripresa dai problemi di inizio millennio e non ancora sconvolta dal tracollo Lehman, il Prodotto Interno Lordo è cresciuto cumulativamente del 36%, mentre il debito pubblico è aumentato di quasi il 400% (dati indexmundi). Capite le premesse citate nell’articolo, viene automatico intendere perché il rischio di default sia così alto in tempo di crisi e con dati economici poco rassicuranti per il 2009 appena concluso. 

PERCHE' E' NECESSARIO EVITARE IL TRACOLLO

     Chi legge i giornali già sa che i problemi greci, come quelli di Dubai qualche settimana prima, stanno tenendo banco creando importanti perdite per molti titoli borsistici. Il sistema è molto semplice e si basa sull’aspettativa di una reazione a catena in caso di dichiarazione di sospensione dei pagamenti. E’ chiaro che il pericolo di andare incontro ad un impagato allontana tutti i possibili detentori di risparmio dal comprare titoli di debito del Governo greco, eccetto rari soggetti disposti a correre il rischio in cambio di un tasso d’interesse esorbitante. Il default creerebbe poi problemi a tutti quei soggetti esposti verso la Grecia, ovvero tutti quei risparmiatori o quelle banche che hanno prestato soldi allo stato ellenico: le conseguenze negative sui bilanci delle banche si trasferiscono immediatamente ai relativi titoli scambiati sul mercato.

Inoltre, gli investitori implicati nei problemi greci non sono solo banche e risparmiatori di tutta Europa, ma anche molte amministrazioni pubbliche tra cui non da ultimo alcune regioni italiane che vedrebbero andare in fumo parecchi milioni di euro in caso di tracollo.

Infine, esiste una regola non scritta ma che si è verificata in tutti i casi di crisi nazionali degli ultimi vent’anni, dai problemi asiatici del 1994, al Messico del 1995, alla Turchia e Russia nel 97-98 fino all’Argentina nel 2001. In caso di default, si manifesta una sorta di “effetto contagio” che trascina in problemi economici altre nazione con caratteristiche economiche simili a quelle presenti nel paese andato in crisi dei pagamenti. Il premio nobel Paul Krugman ebbe a dire, parlando del contagio in seguito alla crisi messicana che: “è come se tutti i paesi dell’America Latina fossero uno uguale all’altro”. In pratica, si insinua tra gli investitori un elevato timore di mancato pagamento che genera una vera fuga di capitali e un credit crunch in grado di portare al tracollo ulteriori stati. Restando in Europa, il tracollo greco non porterebbe sicuramente giovamento a Irlanda, Italia, Spagna e Portogallo – i paesi con i maggiori problemi legati al debito – ma l’intera area euro si vedrebbe danneggiata.

E’ necessario evitare il peggio. Il problema è come agire. Il default prenderà forma solamente se il nuovo Governo greco non sarà in grado di porre un freno alla completa mancanza di disciplina in materia di spesa pubblica e se gli investitori non concederanno fiducia alle manovre che nei prossimi mesi il premier Papandreou porrà in essere.

In ogni caso, se si registrasse un importante credit crunch nei confronti della Grecia, da più parti giungono voci di un possibile ricorso al Fondo Monetario Internazionale se non addirittura un intervento dei Governi dell’Unione Europea, in nome della credibilità di tutte le nazioni e le politiche economiche dell’area euro. 
 


Alessandro Zanchetton