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Secondo l'Independent lo Stato mediorentale deve ancora fare i conti con i diritti umani

 

Dubai, paradiso col trucco

della schiavitù

 

Molti  a sentire le ultime notizie sulla crisi a Dubai si chiedono come sia possibile che la favola dell'emirato possa intravedere la fine; eppure a ben guardare le avvisaglie c'erano.

Un breve cenno storico: 30 anni fa il territorio che oggi chiamiamo Dubai era desertico; non lasciava speranze di vita se non a cactus e scorpioni. Verso la metà del Settecento era nato un piccolo villaggio, già cosmopolita poiché composto da pescatori di perle venuti dalla Persia, dall'India e da altri paesi arabi.

La chiamarono Dubai da “daba”, una locusta comune che divora tutto. La cittadina fu presto conquistata dall'impero britannico che la tenne fino al '71, quando decise di abbandonarla proprio nel momento in cui si stava cercando il petrolio. Finalmente libera dal giogo britannico, Dubai decise di allearsi con sei paesi vicini dando vita agli Emirati Arabi Uniti.

Gli sceicchi che da nomadi si ritrovarono al potere dovettero decidere cosa fare di quel “tesoro”. Maktoum, sceicco di Dubai, aveva un rivoletto di petrolio e decise di creare qualcosa che potesse sopravvivere al tempo - una città che diventasse il centro di attività turistiche e finanziarie, attraendo capitali e talenti da tutto il mondo con la promessa di un paradiso esentasse. Alla chiamata hanno risposto milioni di persone: gli autoctoni ormai costituiscono solo il 5% della popolazione.

Nel giro di 30 anni Dubai è passata dal 700' al ventunesimo secolo come fosse una città caduta dal cielo completa e in espansione.

Ma chi ha costruito Dubai - se la popolazione autoctona era tale da costituire solo un paesino? La risposta aprirebbe lo scenario alla schiavitù.

Dubai è la metafora vivente del mondo globalizzato, un sogno edificato sul nulla. Ti attirano con il loro motto “Porte aperte, menti aperte”, ma la verità è che Dubai non l'ha costruita lo sceicco, l'hanno costruita e continuano a edificarla gli schiavi. Una città che grazie al sistema schiavistico è passata dal tenore di vita di un paese africano ad un reddito medio pro capite di 90mila euro all'anno.

Secondo Johann Hari dell'Independent (The dark side of Dubai, 7 aprile 2009), circa 300mila schiavi vengono caricati ogni sera su camioncini e trasferiti nella vicina Sonapur, un mosaico di casette di cemento armato che si estende per chilometri su una superficie coperta di calcinacci. Schiavi che vengono resi tali dalle imprese edili che li vanno a cercare nei paesi sottosviluppati, e li convincono a trasferirsi con la promessa di una vita migliore ma che vengono privati dei documenti.

Il tutto per una paga mensile di 500 dirham, 100 euro. Tutti a Dubai hanno cameriere che rendono schiave con lo stesso sistema e forti del fatto che, senza soldi e non parlando l'arabo, non possono andare da nessuna parte. Al Mansouri, nemico numero uno dello sceicco reggente, era un avvocato ma gli sono stati revocati abilitazione e passaporto rendendolo uno dei tanti prigionieri di Dubai. Aveva denunciato a BBC e Human Rights Watch il sistema schiavista spiegando che lo Stato difende il sistema perché la maggior parte delle imprese sono di sua proprietà.

Oltre al problema sulla profonda disattenzione per i diritti umani, Dubai vive in una forma di monarchia assoluta mascherata da democrazia; all'epoca della prima crisi economica si aprì uno spiraglio di vera democrazia voluta dai commercianti che fecero causa comune contro lo sceicco e pretesero il controllo sulle finanze dello stato. La novità durò solo qualche anno prima che lo sceicco la soffocasse con l'aiuto dei britannici.

Oggi lo sceicco Mohamed ha trasformato Dubai in una creditopoli, una città che poggia interamente sui debiti, indebitata per il 107% del suo pil; sarebbe già fallita se la vicina Abu Dhabi, che sguazza nel petrolio, non avesse aperto il libretto degli assegni.

Cià è dovuto a gestione e pianificazione della città, che ignora i propri limiti finanziari e ambientali. Per esempio al largo delle coste di Dubai, i costruttori hanno rifatto il mondo da capo, realizzando isole artificiali con la forma di tutti i continenti. Al di là del problema del surriscaldamento globale e dell'innalzamento del mare, al quale non avevano pensato e che sta inabissando le isole, contavano di venderle. Avrebbero chiamato il complesso “the world”, ma non c'è anima viva.

Oggi a Dubai si vedono edifici incompleti. All'interno dei palazzi più chic come l'hotel Atlantis, un gigantesco castello rosa costruito in mille giorni e costato un miliardo e mezzo di euro, piove dai soffitti e le tegole si staccano.

Tutti i progetti realizzati prima della crisi finanziaria hanno un aspetto desolato e fatiscente. Come già detto, Dubai non vive solo sopra i suoi limiti finanziari, ma anche oltre quelli ambientali. I prati, curatissimi (in mezzo al deserto) sono tutti irrigati ei turisti si tuffano in vasche enormi per nuotare con i delfini, o si recano in un freezer enorme con una pista coperta da vera neve.

La terra stessa sta cercando di respingere Dubai. E' quello che sta accadendo con il nuovo campo da golf intitolato a Tiger Woods; per evitare che venga sommerso dalla sabbia bisogna pomparci dentro più di 18milioni di litri d'acqua al giorno. Acqua, il principale problema di Dubai; l'acqua degli Emirati uniti è la più cara al mondo, la sua produzione è più costosa di quella del petrolio e riversa nell'atmosfera quantità enormi di biossido di carbonio; per questo l'impronta di carbonio lasciata da ogni abitante di Dubai è in media più grande di quella di qualsiasi altro essere umano e dieci volte quella di uno statunitense.

Se la recessione si trasformasse in depressione, Dubai si ritroverebbe senz'acqua poiché il governo non ha predisposto piani di emergenza e dispone di riserve che non basterebbero che per una settimana. Se si trovasse un'energia alternativa al petrolio, per Dubai sarebbe la fine. È dunque inutile stupirsi della prossima fine di questo folle sogno.
 

 

Pierpaolo Spollon