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Wallenstein

 

 

Da una conferenza di presentazione del libro

"La Madonna di Piazza di San Pietro in Casale" (agosto2004)

 

Società del terrore

e società del timore

 


   In una fiaba tedesca un tale parte alla ricerca della paura: è così sciocco che non sa neppure che cosa essa sia. Suo padre non sa che cosa farsene di lui e lo manda per il mondo perché impari una buona volta a conoscerla, giacché ne ha tanto desiderio. La fiaba presuppone che l’uomo normale conosca per istinto il senso della paura di fronte a ciò che è inconsueto e non abbia bisogno di apprenderlo”(1) . Il protagonista di questa fiaba conquista la figlia del re e tesori favolosi perché ignora la paura; dimostra buon senso quando non rabbrividisce di fronte a visioni e fantasmi, mentre resta terrorizzato allorché l’ancella gli versa nel letto un secchio di pesci. “Fra le tante cose paurose, questa è l’unica evidente e reale che gli tocca”(2) .


Il quadro di cui trattiamo, la Madonna di Piazza, tradizionalmente attribuito allo Scarsellino, era uno degli elementi di una vasta rete di edicole, piastrini e oratori dedicati alla Vergine posti nelle piazze, all’inizio delle strade e nelle campagne. Ad esso, o meglio, all’intermediazione di Colei che rappresenta, sono attribuiti importanti miracoli, consistenti nell’aver impedito o arrestato disgrazie naturali e umane. Per comprendere la funzione del dipinto, perché una funzione ha avuto, si deve considerare come fondante il tema della paura.


   Anzitutto la Guerra. La guerra dei Trent’Anni arriva a S. Pietro grazie alla sua versione italiana, la guerra di Castro. La prima coinvolse gran parte degli Stati del Continente, ebbe inizio da un conflitto tra protestanti e cattolici in uno degli antichi domini degli Asburgo. Benché i sovrani asburgici si fossero astenuti dal far valere nei propri territori il principio dell’uniformità religiosa, si erano costituite due coalizioni contrapposte, che si fronteggiavano apertamente: l’Unione Protestante e la Lega Cattolica. Quando all’imperatore Mattia fu designato a succedere il nipote Ferdinando II, questi si propose di fare della Casa d’Austria il terzo centro propulsore della Controriforma, accanto allo Stato della Chiesa e alla Spagna. Ma prima che il nuovo imperatore adottasse misure repressive nei confronti dei protestanti, concentrati soprattutto in Boemia, la miccia della guerra dei Trenta Anni era già stata accesa: a Praga i rappresentanti imperiali Martinitz e Slawata erano stati precipitati dalle finestre superiori del castello Hradcany da parte di notabili dell’Unione, fortunatamente senza conseguenze mortali. Correva l’anno 1618. La defenestrazione di Praga fu il segnale della sollevazione generale della Boemia. I notabili boemi dichiararono decaduto l’imperatore ed elessero a loro sovrano uno dei grandi principi elettori dell’Impero, il calvinista Federico V, conte palatino del Reno nonché capo dell’Unione Protestante.  Quest’ultimo resistette il tempo di un inverno. Ferdinando entrò vittorioso a Praga e permise alle sue truppe e ai gesuiti di attuare una sistematica eliminazione dei protestanti di Boemia. L’efferatezza della sua azione e l’intesa tra Austria e Spagna (un esercito spagnolo occupò il Palatinato), nonché la ripresa della guerra tra Spagna e Province Unite fecero temere ai protestanti di tutta Europa che vi fosse un piano per restaurare il cattolicesimo in tutta la Germania, internazionalizzando le ostilità.


Il tragico scontro segnò l’inizio di un lungo, disastroso conflitto tra stati e tra principati europei che, con intervalli e tregue armate, si protrasse per tre decenni. Nonostante l’intervento della Danimarca, l’Unione subì ripetute sconfitte, probabilmente a causa del modo terrificante con cui Albert von Wallenstein, nobile boemo convertito al cattolicesimo e al servizio degli Asburgo, condusse la guerra. Egli riunì un esercito internazionale, “che si nutriva da sé” e a cui permise ogni genere di efferatezza ai danni delle popolazioni occupate. Anche in un’epoca in cui la vita umana era valutata poco o nulla, le gesta del Wallenstein destarono il più vivo raccapriccio.  Stupri, eccidi e violenze di ogni genere accompagnavano il passaggio del condottiero, il cui nome resterà probabilmente associato a quelli di Attila e Vlad Ţepes. Wallenstein è una delle figure più enigmatiche che la storia ricordi. Non era uno psicopatico, come Hitler, o un semplice macellaio, come Pol Pot. Spengler vede nel Wallenstein il difensore dell’idea imperiale. “Pur senza rendersene conto, Wallenstein riprese le cose là dove gli Hohenstaufen le avevano lasciate. Dopo la morte di Federico II (1250) il potere delle caste, o ordini, dell’Impero era divenuto illimitato; è contro di essi e in nome di uno Stato imperiale assoluto, che Wallenstein scese in campo nel primo periodo in cui ebbe il comando. Se fosse stato un grande diplomatico, se avesse visto più chiaro e, soprattutto, se fosse stato più deciso – egli rifuggiva dal prendere decisioni – se egli, come Richelieu, avesse riconosciuta la necessità di usare anzitutto tutta la sua influenza sulla persona del sovrano, forse sarebbe riuscito a ridurre a ragione i principi dell’Impero”. Golo Mann pensa che Wallenstein sia stato ingiustamente diffamato dalla storia. Per un greco come Aristippo, seguace di Socrate, cultura e umanesimo, παιδεία e άνθρωπισμός, coincidono. “Val meglio un mendicante che un ignorante”, afferma, perché “a quello manca il denaro, a questo l’umanità”. Capisco che possa sembrare un’esagerazione: per noi una persona può essere dotata di grande senso umano senza aver mai letto un Socrate o un Aristippo. Come il nostro concetto di cultura, anche quello di umanità dipende dai Greci. L’idea democratica che tutti i cittadini possedessero almeno in potenza lo stesso valore, si era affermata a tal punto fra gli aristocratici greci (dopo il governo dei Trenta tiranni) che si pretendeva dall’uomo colto il rispetto per l’uomo in quanto tale. Secondo Senofonte, Ciro, principe “umano” per eccellenza, avrebbe detto ai suoi soldati di risparmiare gli abitanti delle città conquistate, in nome del senso dell’umanità. Sempre secondo Senofonte, il re Agesilao spesso raccomandava ai propri soldati di non trattare i prigionieri come delinquenti, ma di proteggerli come uomini. Wallenstein, che aveva studiato a Padova – l’Atene d’Europa -  e che conosceva il francese, l’italiano, il latino, il tedesco e il boemo, parve non condividere questo alto sentimento verso il genere umano. A causa del passaggio degli eserciti, in Europa centrale scomparvero almeno dieci milioni di persone, una catastrofe umanitaria maggiore di quella prodotta dalla Grande Guerra. Le due fazioni non sono così coese come si potrebbe pensare: i principi passano da una parte all’altra a seconda del momento e della convenienza. A corte arrivano notizie sempre più preoccupanti: la guerra si fa sempre più cruenta. La notizia della morte del Tilly arriva a Corte l’8 maggio 1632. Scrive Pieroni che “hieri è venuta la nuova della morte del Conte Tilly e questa notte quella del Re di Pollonia  (Sigismondo III). Al Signor Aldringher (Iohann von Aldringhen) hanno (dicono) levato due once del cervello che era offeso dal colpo che gli levò parte del teschio, sì che si dubita della vita e poco si spera che vivendo restasse con le potenze del cervello aggiustato” (Giovanni Pieroni ad Andrea Cioli, Vienna 1632 V 9, Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 1432, f. 347). Il colonnello imperiale Giulio Diodati racconta: «Con il consueto coraggio il generalissimo era dappertutto alla testa delle truppe; dove c’era disordine, riportava nella mischia chi aveva ceduto, s’arrischiava allo scontro con il nemico… Sua Altezza fu colpita da una pallottola di moschetto sul fianco sinistro, rimase però illeso da questo colpo, che non penetrò nella pelle, come da migliaia di altre pallottole di cannone e di moschetto. Vicino a lui il conte Harrach, suo primo tesoriere, ricevette nella gola una palla di moschetto, che gli uscì dall’orecchio…»

 

In tutti i casi Spengler ha ragione: la Guerra dei Trent’Anni non fu una questione puramente religiosa -  ed in effetti paesi tradizionalmente cattolici finirono per schierarsi dalla parte dei protestanti, ed erano presenti, nelle opposte schiere, militari di ogni grado che avevano compiuto una conversione per motivazioni di tipo meramente opportunistico. La Guerra fu l’esito della contrapposizione tra i sostenitori dell’idea imperiale (quella di un impero superiore alle fazioni e sovrano sui singoli stati) e i sostenitori delle fazioni (i principi dell’Unione) e dell’idea dello Stato Assoluto (Richelieu, Mazzarino). Non è affatto il caso, né la sede, per analizzare la Guerra dei Trent’Anni: si è trattato di un evento così denso di avvenimenti, fatti e nomi, che non basterebbe una settimana. Si deve dire solamente che essa terminò con la Pace di Westfalia, assoluta vittoria della politica estera e della diplomazia di Richelieu e di Mazzarino: l’impero rimane diviso in una miriade di staterelli insignificanti e divisi nella politica e nel culto.

 

    La guerra di Castro fu la versione italiana del più vasto movimento bellico dell’Europa centrale. Il ducato di Castro era stato costituito da Papa Paolo III Farnese nel 1537, riunendo la contea di Ronciglione e possedimenti appartenenti alla Camera Apostolica a territori già appartenenti alla sua famiglia; il pontefice lo cede al figlio (“il nipote del fratello del papa”) Pier Luigi nel 1538, in cambio di Frascati. E’ un’incredibile storia di nepotismo, ma che si innesta con insospettabile naturalezza nel confuso tessuto di rapporti tra stati del Rinascimento italiano. Castro si trova in una zona di peculiare importanza economico-strategica, ed è ricca di allume, sostanza chimica indispensabile per varie attività industriali del tempo. La floridezza e la potenza del ducato spinsero, nel secolo seguente, Urbano VIII della famiglia Barberini al tentativo di impadronirsene. Odoardo Farnese, duca di Parma, raccoglie la sfida, ma la città, assediata dai 10.000 uomini del generale Luigi Mattei, marchese di Belmonte, viene espugnata nel 1641. L’immediatezza con cui Castro era caduta fece sospettare ai più che vi fossero delle intelligenze tra il Papa e il Farnese per portare in Italia i Francesi a danno degli Spagnoli.  Il Papato stesso tuttavia, facendosi, con le sue guerre e con i suoi meccanismi di promozione, motore incontrollato di disgrazie, di fortune improvvise e di ascese immeritate, parve rimettere continuamente in discussione gerarchie di potere e di prestigio a mala pena consolidate, costituendo così una minaccia per tutti, una fonte permanente di instabilità. Per questo motivo lo stesso anno, il duca Odoardo riesce ad ottenere l’appoggio francese, nonché l’alleanza di Venezia, Firenze e Modena, preoccupate per un’eccessiva espansione pontificia, anche a causa delle rivendicazioni del Papa sul ducato di Parma e Piacenza; l’alleanza vince e il Farnese, nel 1644, recupera il ducato. La guerra continuerà tra Ranuccio Farnese e Innocenzo X, sino alla distruzione della città. Per noi è importante in quanto l’Arciprete di S. Pietro in Casale Don Carlo Antonio Gioacchini annotò:
Adì 11 luglio 1643 da soldati parmeggiani che erano aqquarterati a Bondeno fu abbrugiato il luogo di S. Pietro in Casale”
Non è chiaro quale sia stata la reale entità dei danni. Il Giacomelli avanza l’ipotesi che il termine “luogo” sia stato utilizzato dall’Arciprete di S. Pietro in Casale non per indicare l’abitato, bensì per indicare la casa-podere del beneficio parrocchiale. Infatti non si lamentarono vittime, e lo scarno documento del Gioacchini pare escludere la rovina della chiesa: d’altra parte questa fu oggetto di migliorie e abbellimenti negli anni successivi, il che fa presumere che non fosse stata devastata dalle fiamme. E’ possibile che il timore sia stato maggiore del danno. Solo che, secondo una diffusa tradizione, le fiamme si arrestano proprio di fronte ad un dipinto della Vergine esposto all’angolo di un edificio che dà sulla piazza. I parrocchiani tutti gridano al miracolo. E’ l’inizio di un sentimento di devozione che durerà per secoli, e che si mostra ancora robusto.

 

     Per cercare di contestualizzare il fenomeno della devozione  mariana nel borgo, si è tentato, pur nei limitatissimi spazi e tempi a disposizione, di illustrare la condizione degli abitanti ai tempi dell’evento. Durante la prima metà del secolo XVII, il borgo di S. Pietro in Casale sembra seguire la sorte economica e sociale del bolognese in generale. Nel bolognese, infatti, la contenuta ripresa dei primi due decenni del Seicento viene interrotta dalla grande crisi europea del 1619-1620 che avvia una serie di sciagure economiche e naturali, culminanti con la peste del 1630, e che si protrae fin verso la metà del secolo; Secondo ogni dato apparente, cioè, la congiuntura continentale è a tal punto gravida di conseguenze che, per gli anni Venti del secolo, non si parla più soltanto di crisi di sussistenza, ma di un generale declino dell’agricoltura, delle arti e del commercio. San Pietro non sembra fare eccezione.

      Nell’agosto del 1630 la peste arriva nel piccolo borgo di S. Pietro in Casale e nel contado. Essa fu, molto probabilmente, un tragico regalo dei Lanzichenecchi del Conte di Collalto che assediavano Mantova. Minacce di peste si erano già avute dal 1623 e nel 1629 si sapeva che infieriva in Francia e in Svizzera. Per la precisione, prima della peste si contavano a S. Pietro in Casale 400 anime “da comunione”, cioè individui di età superiore a dodici anni: ad essi bisognava aggiungere un centinaio di fanciulli inferiori a tale età: in tutto, quindi, la popolazione doveva ascendere a circa 500 persone. In totale nel corso del 1630 si conteranno 171 morti, contro i 12 del 1631 e i 5 del 1632. Più di un terzo della popolazione.  A Bologna, a causa dell’epidemia, scomparvero 23.691 persone intra moenia. Certo, le spaventose condizioni igieniche del tempo, la mancanza di un acquedotto e di una rete fognaria dovettero esaltare il peso che nel destino umano avevano le malattie provocate da batteri.

     Durante l’età moderna esiste uno strettissimo rapporto tra comunità civile e parrocchia. La società è ufficialmente cristiana. I costumi, le strutture sociali, la legislazione, - tutto è o vorrebbe essere ispirato ai principi cristiani. E’ in un mondo siffatto che si sviluppano le confraternite, mariane o cristocentriche. Ciascuna confraternita aveva consuetudini devozionali proprie che, in qualche modo, le conferivano caratteristiche peculiari. Queste associazioni religiose laicali non solo organizzarono la devozione; esse svilupparono l’azione caritativa dei confratelli nei campi della promozione della beneficenza e del recupero degli emarginati, dell’assistenza ai poveri e ai carcerati, dell’organizzazione dei giovani, dell’attività ospedaliera e del conforto dei condannati a morte. A San Pietro in Casale, nel corso della prima metà del ‘600, assume particolare rilievo la Compagnia mariana della Visitazione. Probabilmente costituita assai prima dell’inizio del secolo, ad essa fu dedicato un oratorio edificato al tempo dell’arciprete Cristoforo Vecchi (1600-1612) sopra la sagrestia, accanto alla chiesa di S. Pietro in Casale. Infatti una memoria della prima metà del secolo XVII così riporta: “Sopra la sagrestia della chiesa vi è l’oratorio della Compagnia dei Battutti sotto il titolo della Visitazione della Madonna; da confratelli si recita l’officio di feste, avrebbe bisogno di riforma perché poco si osservano i loro statuti”. Come chiarisce il Fanti, la locuzione “Compagnia dei Battuti” non deve trarre in inganno: nel bolognese tutte le confraternite spirituali che indossavano la “cappa da Battuto”, andavano alle processioni con proprio abito e propria insegna e officiavano un proprio oratorio erano indicate come compagnie di Battuti. Per quanto concerne il titolo della confraternita, quello della Visitazione della Vergine a S. Elisabetta, “abbastanza inconsueto” per una compagnia devozionale, a parte l’ovvia connotazione mariana, è rischioso formulare ipotesi. Piuttosto che riferirsi alla festa liturgica della Visitazione (2 luglio), istituita nel 1378 da Urbano VI, data troppo anteriore a quella di fondazione della confraternita, sarebbe opportuno far risalire il titolo ad una qualche attività dei confratelli di visitare gli infermi; manca tuttavia la documentazione necessaria a chiarire l’origine della compagnia e del suo nome. Infatti sia l’Archivio di Stato di Bologna che l’Archivio Parrocchiale di S. Pietro in Casale non conservano alcun documento in merito; come d’altra parte l’Archivio Generale Arcivescovile di Bologna. Inoltre le relazioni delle visite pastorali della seconda metà del Cinquecento non la citano: questa circostanza, ad opinione del Fanti, si spiega alla luce del fatto che “la compagnia era un corpo del tutto autonomo, dotato di tutte le prerogative delle vere e proprie confraternite laicali formalmente costituite e, pur avendo sede presso la stessa chiesa stessa, raccoglieva i suoi confratelli dall’intera area plebana”. Alla fin fine, una delle poche certezze che abbiamo deriva da una data impressa dietro un’immagine: 1570. Infatti la Compagnia della Visitazione di S. Pietro in Casale ci ha lasciato la più antica insegna confraternitale della zona: si tratta di uno stendardo a foggia triangolare, vero e proprio supporto monumentale con il vertice rivolto verso il basso. I rapporti tra la gerarchia ecclesiastica e i membri della confraternita della Visitazione non devono essere stati sempre idilliaci; infatti l’arciprete Giovanni Bencivenni, in un inventario del 1622, scriveva:L’oratorio della Compagnia della Madonna della Visitazione habet requisita
ma hora dicono l’officio e hora non lo dicono, e non sono aggregati a niuna
Compagnia. Fu ordinato dall’Ill.mo che dovessimo andare in capo alle processioni del SS.mo Sacramento del mese, non obbediscono, levino la croce senza chiamare sacerdoti et senza licenza del P. Spirituale. Quanto a me dico esser più  tosto una confusione che unione. Come per altre confraternite, si assiste ad un progressivo accentuarsi del potere di vigilanza del clero e all’inalveazione della loro pietà verso devozioni consolidate; nonostante ciò, la vita delle confraternite per tutta l’età moderna si era distinta per la rilevante autonomia del laicato e per la stretta aderenza ad antichi contesti cittadini e rurali.

        A causa del taglio di Porto Viro, posto in essere dai Veneziani tra il 1600 e il 1604 in risposta ad un progetto pontificio comportante la riescavazione del Primaro-Volano (per impadronirsi delle attività commerciali della Serenissima) ci furono conseguenze funeste per l’assetto idraulico del Ferrarese: contro di esso si rovesciarono le melmose acque del Po delle Fornaci, mentre l’imbocco del Porto dell’Abate e del Po di Goro rischiarono l’interramento. Papa Clemente VIII reagì con il breve “Exigit a nobis”, del 12 agosto 1604, che conferiva al legato di Romagna Francesco Blandrata l’incarico di eseguire i lavori di diversione del Reno nella San Martina, al fine di permettere la riescavazione del torrente Primaro. In realtà tale diversione creò subito dissesti gravissimi, rompendo gli argini della San Martina e espandendo le alluvioni sulla pianura ferrarese e bolognese, congiungendo le valli prodotte dal Reno con quelle di Marara, di Savena e d’Argenta. Una specie di lago si era creato in Emilia. Nel Sei-Settecento, le valli si imposero su aree sempre più vaste, imperversando dapprima sui territori più bassi, sommergendoli, ma minacciando anche quelli più alti. L’espansione delle paludi venne arrestata solo nel 1767, quando fu deciso di immettere le acque del Reno nel Po di Primaro, secondo un percorso che è essenzialmente quello attuale. le conseguenze della sfortunata impresa Clementina erano ancora evidenti alla metà del secolo XIX. Vaste porzioni di territorio a est e a nord-est del centro abitato di S. Pietro in Casale erano occupate da acquitrini paludosi, da valli e da risaie. L’acqua era l’elemento dominante del paesaggio. Solo approfonditi studi sistematici potrebbero svelare la relazione tra essi e le molteplici alluvioni e rotte dei fiumi che si ebbero con allarmante frequenza. Un evento di questo genere avvenne nel 1839, quando le acque irruppero su gran parte del territorio comunale. La popolazione, atterrita, si riunì in preghiera, e, al termine del triduo, tornò a splendere il sole. Ancora una volta la Madonna aveva salvato il borgo, e sotto l’immagine della Madonnina di Piazza fu collocata una lapide ex voto. 

      Tornando alla fiaba tedesca, è appunto a proposito del concetto di “paura” che va posta una fondamentale distinzione. Non è affatto un caso che il concetto venga indagato e definito dal Leopardi, il più grande poeta italiano dai tempi di Dante e Petrarca, nonché  il più fine pensatore e il più colto autore della grande prosa. E’ l’ultimo italiano per il quale chi scrive nutra un profondo rispetto. Leopardi fu un fatto europeo, ma le sue osservazioni – forse a cagione della circostanza che l’Italia non seppe mai imporre una politica culturale - non ebbero mai quella fortuna universale che avrebbero meritato. Fra le tante, questa: “altro il timore altro il terrore”.  Questa distinzione è fondante, e ne raccomando caldamente l’esame, soprattutto a quei tanti scrittori di cose umane per i quali la Storia sembra essere una faccenda divertente o inutile.  La nostra è la società del timore. Ha cessato di essere la società del terrore nel momento in cui la pax americana si è imposta in Europa, e le grandi epidemie hanno cessato di imperversare. Nessuna persona sensata potrebbe ragionevolmente immaginare la distruzione della città di San Pietro in Casale a causa di un’epidemia o del passaggio degli eserciti; nondimeno, questo pensiero era legittimo per un uomo del ‘600. L’uomo di oggi è debole e la sua condizione è precaria; ma lo è dal punto di vista psicologico, non da quello dello spirito di conservazione. Le fobie sono tutte individuali e sono generalmente legate alla mancata considerazione del singolo nel tessuto sociale: in buona sostanza, alla sua mancata affermazione in relazione a contenuti che sono divulgati dai media come praticabili, ma che in realtà sono riservati a pochi. L’uomo del ‘600 non poteva permettersi il lusso di riflettere sul mancato esercizio della propria volontà di potenza; egli sapeva bene come gli eventi potessero cancellare dalla faccia della terra non soltanto se stesso, ma anche la sua famiglia e tutti coloro che conosceva.  Il terrore attanagliava la tribus ed il singolo come esponente della tribus. E la piccola tribus di S. Pietro in Casale, che non disponeva di un esercito da opporre alle milizie di questo o quel principe, né di conoscenze scientifiche tali da scongiurare gli effetti di una epidemia, fece l’unica cosa che poteva fare: si chiuse in se stessa, barricandosi all’interno di una fantastica Linea Maginot di edicole di culto.


Una società del terrore è sempre semplice e drammatica. Lo spirito di conservazione opera una importante selezione delle aspettative: si fa ciò che si deve per sopravvivere. Al contrario, una società del timore è complessa e differenziata; le aspettative non mostrano una relazione diretta con lo spirito di conservazione, ma paiono imposte dal sistema. La società del terrore è quella del possibile; la società del timore è quella dell’improbabile.


Così, la società del timore – fatto nuovo nella storia dell’umanità – ha rotto in modo tanto radicale con le tradizioni e le regole della società del terrore che ci si può chiedere se si possano usare ancora le stesse parole per definirla e spiegarla. Tra la prima e la seconda società la differenza è tra generi; il fatto che questa circostanza non sia stata ancora sottolineata a dovere appare di una gravità inaudita, ove si pensi che tutti gli studi di antropologia e antropologia filosofica si basano unicamente su un prototipo: la società del terrore – quella dei Nuer, per esempio.


Anche senza aderire completamente alla tesi del Feuerbach, che postulava la piena coincidenza tra teologia e antropologia, non si può negare che il divino sia anche, per il genere umano, la somma delle sue aspettative. E’ dunque difficile per chi, come me, vive in una società in cui le aspettative sono imposte dai media, immaginarsi il divino proprio della società del terrore. Difficile farsene una ragione: forse l’unica immagine che possiamo ragionevolmente utilizzare è la pittura del grande Caravaggio, anima del primo Seicento e latore di una nuova sensibilità drammatizzante.     

 

       Di fronte al terrore pochi riescono mantenere la calma. La storia ricorda poche eccezioni. Una di queste è il caso dell’attore irlandese Tyrone Power. Agli inizi dell’ottocento una serie di furiose tempeste aveva spazzato l’Atlantico; a volte le rubriche marittime dei giornali accanto al nome di una nave stampavano una sola sinistra parola: “scomparsa”, e questo voleva dire che la nave era semplicemente svanita in mare. Le navi potevano essere grandi o piccole, dirette a est o a ovest: l’oceano le inghiottiva senza lasciare traccia. Così, quando Power si imbarcò sul postale Europe nel 1833, si trovò di fronte a passeggeri letteralmente terrorizzati. Ma, consapevole dei rischi che correva, nonché della fugacità delle cose terrene e della opportunità di andare all’altro mondo senza troppi pesi, soleva incoraggiare i compagni di viaggio dicendo: “Dimenticate i torti ricevuti: baciate vostra moglie”.

 

 

 

Marco de' Francesco


(1) Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, 1963, pag. 48. Snell si riferisce alla fiaba dei fratelli Grimm “Giovanni senza paura”.

(2) Ibidem.