SOCIETA'

BELLA E STUPIDA?

DIPENDE DA CHI LA GUARDA

 

 

Immaginate una ragazza, brillante e carina, seduta davanti a un uomo. Lui le pone delle domande, forse per un colloquio di lavoro. Ma invece di concentrarsi sulle risposte, l’uomo le guarda con insistenza il seno, poi l’inguine, poi le gambe, mai il volto. Alla fine del colloquio, immaginate di sottoporre la ragazza a un test di matematica, neanche troppo complicato. Ebbene, per quanto la giovane abbia dimostrato in passato buona dimestichezza con i numeri, i risultati del test saranno nettamente inferiori a quelli attesi.

Il perché lo spiega ora uno studio condotto da Sarah Gervais, Theresa Vescio e Jill Allen, psicologhe rispettivamente all’Università del Nebraska-Lincoln e alla Pennsylvania State University, e pubblicato su Psychology of Women Quarterly. “La spiegazione di questo comportamento va cercata nella cosiddetta minaccia di stereotipo”, scrivono le autrici della ricerca, che ha anche vinto il premio Georgia Babladelis come miglior paper dell’anno. Al crescere dell’intensità dello sguardo “oggettificante”, cresce di pari passo lo stereotipo di genere. Le ragazze si ritrovano intrappolate nell’idea di essere nient’altro che un oggetto di piacere. “E le loro abilità matematiche si riducono, perché si convincono che le loro caratteristiche esteriori siano assai più importanti di quelle intellettuali”, continuano le psicologhe.

Quel che è peggio, sottolineano le studiose, è che le donne inchiodate alla loro condizione di oggetto sessuale non riescono a liberarsi dalla morsa dello sguardo maschile. E mostrano una forte motivazione a perpetuare l’interazione con l’uomo responsabile della loro “oggettificazione”. “Probabilmente perché – dicono – lo stereotipo solleva dubbi e preoccupazioni rispetto al loro ruolo sociale”. Si sentono insicure, fragili. E cercano conforto e sicurezza nel ruolo che è appena stato loro assegnato, in un circolo vizioso difficile da spezzare.

Lo studio delle tre americane è stato svolto su un campione di 67 ragazze e 83 ragazzi di età compresa tra i 18 e i 29 anni, studenti di una grande università del Midwest americano. I volontari erano stati reclutati nelle diverse etnie (afroamericani, latini, asiatici, euroamericani), nel 98 per cento dei casi erano eterosessuali, ed erano all’oscuro del vero obiettivo dello studio. Alle indagini partecipavano poi anche gli sperimentatori, due donne e due uomini tra i 20 e i 22 anni addestrati, grazie a un lungo e approfondito training, a produrre o meno lo “sguardo oggettificante”.

L’esperimento si svolgeva in una stanza, secondo le modalità di un colloquio di lavoro. I ricercatori avevano formato quattro gruppi. In uno, le giovani donne sottoponevano i ragazzi alle domande, puntando gli occhi con malizia su torace, genitali, cosce; nell’altro si produceva la situazione inversa, in cui l’intervistatore si concentrava più sugli attributi sessuali della sua giovane interlocutrice che sulle sue risposte. Nei due gruppi di controllo il colloquio si svolgeva in modo del tutto asettico: chi poneva le domande fissava l’intervistato o l’intervistata negli occhi, senza distogliere lo sguardo. Terminato il colloquio, a tutti i volontari (le cui abilità in matematica erano state precedentemente testate) veniva chiesto di eseguire dodici problemi in dieci minuti. Successivamente, ai partecipanti veniva chiesto di indicare la volontà o meno di proseguire l’interazione con l’individuo dell’altro sesso che aveva posto le domande.

Analizzando i dati, le psicologhe hanno verificato alcune delle loro ipotesi di partenza. In primo luogo, quanto lo “sguardo oggettificante” dei volontari maschi influisse negativamente sulla concentrazione, e dunque sulle capacità logiche, delle femmine. Lo stesso però non accadeva ai volontari uomini, che raggiungevano le stesse performances nei test indipendentemente dal comportamento dell’intervistatrice. In secondo luogo, le studiose hanno rilevato come le donne trattate come oggetti sessuali mostrassero un interesse maggiore, rispetto alle donne del gruppo di controllo, nel continuare una relazione con l’intervistatore, mentre lo stesso non era vero per i volontari maschi.

“Naturalmente il nostro studio presenta alcuni limiti”, ammettono le ricercatrici. Per esempio, l’aver immaginato un colloquio di lavoro può aver falsato la condizione di partenza, mettendo in gioco altri fattori (potere, dominanza) che da sempre sono insiti nel rapporto tra i sessi. Magari, continuano le studiose, molti uomini non si sono accorti dello “sguardo oggettificante” della intervistatrice, non essendo abituati a questa modalità di interazione con l’altro sesso. E tuttavia, la ricerca mette in luce un aspetto inquietante delle dinamiche tra i sessi. In fondo, come aveva già capito Jessica Rabbit, “le donne non sono stupide. E’ che le guardano così”.

Elisa Manacorda

10 febbraio 2011

Galileo, giornale di scienza e problemi globali